E’ difficile parlare di Urbanismo Tattico sul piano teorico, poiché è nato come un insieme di azioni sullo spazio pubblico urbano e solo successivamente si è cercato di costruire attorno ad esse un apparato di considerazioni teoriche. In questo post ho voluto quindi mantenere quell’originale approccio pratico, raccontando l’Urbanismo Tattico per punti.
Urbanismo Tattico non è una disciplina, o una specifica prassi, ma una specie di nome collettivo.
Urbanismo Tattico è un’espressione coniata tra il 2007 e il 2010 da due pianificatori, Mike Lydon e Anthony Garcia (Street Plans Collaborative), per raccogliere in un’unica espressione alcune pratiche urbane molto diverse tra loro. Occorreva un nome per descrivere pratiche che spesso non rientravano tra quelle quelle ammesse sul suolo pubblico o tra quelle già codificate dalle discipline urbane (come l’architettura, l’urbanistica o la pianificazione territoriale). Certe volte, infatti, le pratiche urbane dell’UT sembrano giochi, altre volte arte, molto spesso, semplicemente, riguardano quella straordinaria dimensione dei presenti alternativi al nostro, perché ci fanno sperimentare la città come se fossimo stati catapultati, temporaneamente, in un mondo parallelo con molti colori, poco traffico e un sacco di persone sorridenti. Gli esperti di urbanismo tattico (qui senza alcun italico) operano principalmente come facilitatori di processi di co-progettazione e co-produzione, e sanno perfettamente che il loro ruolo di consulenti serve a liberare il potenziale di una comunità, pertanto la loro preparazione non dovrà essere in alcun modo d’ostacolo ai processi di costruzione dell’dea o di costituzione del consenso. Grazie a questa particolare sensibilità all’ascolto, i processi di UT riescono a raggiungere obiettivi che l’urbanistica tradizionale ha dati per innati all’interno della città, come la costituzione di un’identità locale, la formazione di una comunità o la formazione di un senso di appartenenza ad essa.
E così capiamo anche un’altra cosa, altrettanto importante:
L’UT riguarda azioni temporanee, ad alto potenziale di comunicazione e reversibili (e alcune volte pure non autorizzate, il che rende l’UT molto stimolante!).
Per questo credo che l’aggettivo che meglio descrive un atto di UT sia proprio straordinario. Non intendiamo qui parlare del suo valore, ma del fatto che l’UT si occupa proprio di farci uscire dall’ordinario, dai modi in cui siamo (stati) abituati a vedere e ad abitare un certo spazio pubblico urbano. Molto spesso si tratta di un’intuizione, di quelle che ci vengono quando, tra principianti, ci mettiamo a discutere di tutti quei “mi piacerebbe che…” o “sarebbe figo se…” o “ti immagini!…”. Se tra le persone coinvolte in questi inconsapevoli brainstorming non ci sarà un esperto, allora sarà probabilmente un bene (potrebbe tarparvi le ali dell’immaginazione). Se poi potrete pure concedervi il tempo di sognare in compagnia sarà ancora meglio!
Ad ogni modo, il punto di arrivo dell’UT è trasformare il modo di utilizzare un pezzetto di spazio pubblico, anche se solo per un breve periodo, con il coinvolgimento del maggior numero di residenti, sia nella fase di progettazione che in quella di realizzazione. La nuova funzione di questo piccolo spazio pubblico è un elemento importante, e spesso emerge nelle discussioni tra i cittadini che usano abitualmente proprio quello spazio pubblico. E’ questa la straordinaria capacità della mente del principiante, che può permettersi di immaginare delle alternative senza farsi appesantire da normative, questioni amministrative o tediose problematiche tecniche ed economiche. E così arriviamo a uno dei punti che rendono l’UT un pizzico controverso per tecnici e Pubbliche Amministrazioni:
L’UT tende a mostrare come tecnici e PA abbiano (xxxxxx) molto da imparare dai cittadini (ho scritto xxxxxx al posto dell’avverbio tra parentesi, potete metterci “sempre”, “alcune volte” o “ancora”, come preferite).

Come dicevamo, il punto di arrivo dell’UT è trasformare il modo di utilizzare un pezzetto di spazio pubblico. Il come si arriva al punto è poi di competenza dei tecnici (urbanisti, pianificatori, architetti, artisti, facilitatori, sociologi, costruttori, carpentieri, falegnami), mentre il come si rende definitiva la trasformazione è di competenza della Pubblica Amministrazione. Questo modo di vedere le cose ne sottintende in realtà un altro ancora, come una bambola russa, un punto un po’ più specifico, che riguarda, ancora una volta, sia noi tecnici che i cittadini:
La città è sempre perfezionabile (e commettere errori di pianificazione è sempre più facile).
Ecco, vi ho svelato il nostro più intimo segreto: la velocità con cui stanno cambiando i tempi, il susseguirsi di crisi (economiche, sociali, culturali, demografiche), l’interrelazione sempre più chiara tra il nostro locale e il loro globale, sta mettendo a dura prova l’incrollabile fiducia che noi tecnici abbiamo nei confronti delle nostre prassi più consolidate. Detto in altre parole: pianificare una città oggi è altra cosa rispetto a pianificare una città negli anni ’60-’70. E per essere ancora più chiari: oggi ci stiamo lentamente accorgendo di quanti errori abbiamo commesso nella pianificazione degli anni ’60-’70, e stiamo facendo moltissima fatica a capire come riparare proprio a quegli errori. E’ una situazione abbastanza imbarazzante, che alcuni ritengono dovrebbe mettere un freno alla pianificazione basata su grandi piani, per porre invece una maggiore attenzione ai piccoli progetti. Altri invece (come me, lo ammetto) pensano che in realtà abbiamo bisogno di un altro tipo di piani e che la pianificazione vada implementata in modo strategico e performativo (vedremo come l’UT ci può insegnare molto anche sul design strategico).
Come a scuola, per uscire dall’imbarazzo del dibattito e smettere di fissarci le punte delle scarpe, nella speranza di evitare un’interrogazione su di un tema su cui non siamo (xxxxxx) preparati (anche qui potete metterci ancora, sufficientemente o quasi mai, come preferite), dovremmo quindi lasciare che il nostro fedele compagno di classe, Mr Urbanismo Tattico, si offra al posto nostro e vada alla lavagna.
Fin qui abbiamo chiarito alcune questioni a riguardo dell’UT, ma non abbiamo ancora chiarito perché ne stiamo parlando, oggi. Certo, è abbastanza ovvio che parleremo di UT e delle sfide che lancia continuamente alle pratiche più consolidate di trasformazione urbana. Quando mi hanno chiesto di contribuire al progetto In&Out Arcella con un intervento pubblico ho proposto, quasi di istinto, di parlarvi di UT. Mi succede spesso: prima arriva l’intuizione. L’UT parte dai cittadini, e voi siete cittadini, anzi, noi tutti siamo cittadini. Questo, per cominciare, è quanto ci basta per essere sicuri di avere qualcosa in comune per iniziare a chiacchierare, come accade con il tempo meteorologico o con i figli.
A sentire Mike Lydon e Anthony Garcia l’UT è vecchio quanto lo spazio pubblico, ma ce ne siamo resi conto solo di recente, con il prolungarsi della crisi economica iniziata nel 2007 e grazie a Internet. E così vi ho dato almeno tre informazioni distinte: parleremo di spazio pubblico, di condivisione delle prassi di UT grazie al web e dei libri di Mike e Anthony, Tactical Urbanism e Tactical Urbanism vol. 2, che, guarda caso, parlano specificamente di UT. Esistono altri quattro libri di Lyndon & co. sull’UT, che trattano i casi di studio sull’utilizzo dell’UT in altri paesi (segnalo qui il vol. 5, dedicato all’Italia).
Parliamo di UT oggi perché le città hanno bisogno urgente di essere rese più abitabili, eque ed inclusive, a tutte le dimensioni. Le pesanti ripercussioni della crisi economica, di politiche urbane inadeguate, di processi di trasformazione urbana asimmetrici, nonché la nostra sempre più profonda simbiosi con le zone urbanizzate del pianeta ci stanno mostrando un percorso in salita, ma è forse l’unico possibile: dovremo prenderci cura delle nostre città. E l’UT, con un know-how generalmente aperto e gratuitamente disponibile, costituisce un’ottima cassetta degli attrezzi per cominciare il nostro percorso.
L’UT ha come oggetto di interesse il rapporto tra spazio pubblico e comunità residenti. Dovremmo avere ben chiaro di cosa parliamo quando diciamo spazio pubblico. Ma è davvero così? In fondo, a seconda dei territori e delle civiltà, non sappiamo se sia nato prima lo spazio pubblico o la proprietà privata, ma l’esistenza di piazze, strade, marciapiedi, piste ciclabili e parcheggi è quasi data per scontata nel nostro immaginario urbano: non esiste città senza spazio pubblico, no? Eppure conosciamo città in cui lo spazio di cui stiamo parlando, quello che sta tra gli edifici, non è davvero pubblico. A Londra molte strade del centro sono spazio privato, concesso in uso al pubblico; a New York City alcune piazze a lato delle avenue e delle street sono spazi POP, cioè Private Owned Pubblic space, spazi pubblici di proprietà privata. Ma cosa cambierebbe se tutto lo spazio pubblico di una città diventasse privato? Al di là del fastidio di dover chiedere permessi di transito o pagare un pedaggio tutte le volte che usciamo di casa, ci troveremmo ad essere privi di una fenomenale infrastruttura di espressione della nostra immaginazione, dei nostri bisogni o delle nostre preoccupazioni. Ancora oggi, ad esempio, a quasi trent’anni dalla diffusione pubblica del world wide web, usiamo l’espressione scendere in piazza per indicare un’azione collettiva di protesta, segno che lo spazio pubblico (in questo caso la piazza) è una valvola di sfogo vitale per riequilibrare le normali tensioni che accompagnano la vita in città.
Lo spazio pubblico, tuttavia, non è uno spazio di risulta ma un’infrastruttura vitale per la civiltà, e l’Impero Romano lo sapeva perfettamente. Anche la nota griglia di Manhattan è stata realizzata prima dello sviluppo urbano dell’isola, ed è probabilmente l’infrastruttura più vecchia della città. Secondo i dati del Dipartimento dei Trasporti di NYC lo spazio pubblico della Grande Mela conta per il 25% dell’intero territorio metropolitano, con 138 km di strade e 312 km di marciapiedi. Per cambiare davvero una città occorre necessariamente partire dai suoi spazi pubblici, che sono al contempo risorsa ed espressione del pubblico. Uno spazio pubblico ben funzionante, in grado di garantire diverse forme di mobilità e di aggregazione, è indicatore di una città viva e ben organizzata. Purtroppo non è condizione sufficiente a che la città sia anche attenta ed equa nei confronti delle proprie comunità locali. Infatti la vocazione civica dello spazio pubblico non si risolve nella sola proprietà pubblica. Occorre che lo spazio pubblico sia accessibile all’azione civica e che ne stimoli, al contempo, le capacità di azione. Potremmo dire che lo spazio pubblico è davvero pubblico quando i cittadini si sentono in diritto di agire su di esso per migliorarlo, assumendosene cura e responsabilità. Queste riflessioni ci portano ad un altro punto, ovvero:
La tensione caratteristica che si crea tra il governo e i governati è vecchia quanto le città.
In un’intervista del 22 marzo 2018, Mike Lyndon ha detto: ho iniziato la mia carriera a Miami, in uno studio di progettazione e pianificazione. Abbiamo elaborato progetti davvero innovativi, ma mi sono rapidamente reso conto che mettere belle immagini su uno schermo o posizionare idee su una mappa è una cosa, ma svilupparle davvero è un altro tipo di sfida. (…). E così mi sono innamorato di questo approccio in cui puoi cambiare il modo di pensare delle persone e il modo di comprendere il potenziale della loro città attraverso l’esperienza piuttosto che attraverso la sola pianificazione.
Lydon e Garcia, urbanisti di ultima generazione, conoscono da vicino i problemi ma anche le ricchezze che animano ogni contesto urbano. Se le tensioni generate dal mercato immobiliare spesso si riversano con i loro effetti negativi sul contesto urbano, il capitale umano che anima letteralmente la città può mostrarsi come uno dei principali antidoti. Le città più avanzate stanno adottando strumenti specifici per non disperdere questa energia, capace di agire rapidamente, con pochissimi investimenti e con grande capacità di adattamento, tre caratteristiche sconosciute alla pianificazione tradizionale.
Aggiungiamo un’altra riflessione sul ruolo chiave dell’immaginazione, dote che appartiene a noi umani, e che poco o nulla deve a specifiche conoscenze tecniche. Nell’introduzione a Tactical Urbanism Vol. 5 – Italia, scritta da Valentina Talu dello studio Tamalacà di Sassari, vengono così riportate le parole della vera ispiratrice di tutta l’urbanistica alternativa degli ultimi cinquant’anni, l’attivista Jane Jacobs, che scrisse:
Progettare una città è relativamente semplice; per rigenerarne una esistente occorre (invece) molta immaginazione.
Il corsivo tra parentesi è mio, serve a sottolineare un altro aspetto fondamentale dell’UT, cioè che il carburante del suo motore non è la conoscenza, quanto, appunto, l’immaginazione. Come in ogni processo di design strategico, si procede poi per tentativi, passando per tre momenti: costruire, misurare, imparare. Anche per questo la maggior parte delle azioni dell’UT sono temporanee e a bassissimo costo, in questo modo, per misurare e imparare, avremo costruito senza spendere una follia!
“Poiché i luoghi abitati dalle persone non sono mai statici, l’UT non propone soluzioni standardizzate ma risposte intenzionali e flessibili. Le prime rimangono infatti bloccate nelle maglie delle numerose discipline che agiscono nel campo dello sviluppo urbano, che pensano di poter controllare la maggior parte delle variabili che regolano le città. Le seconde (le risposte flessibili) rifiutano questa impostazione e abbracciano la dinamicità delle città. Questa riflessione invita ad un rinnovato dialogo a proposito della resilienza locale e aiuta città e cittadini, insieme, ad esplorare un approccio alla costruzione della città più ricco di sfumature, che possa immaginare trasformazioni sul lungo periodo ma anche regolarsi con l’inevitabile mutare delle condizioni.” (Tactical Urbanism, vol. 1)
Ecco le tre principali applicazioni di UT, a cui possono essere fatte risalire quasi tutte le pratiche urbane di UT:
- Iniziativa cittadina, per accorciare il consueto processo di realizzazione delle opere pubbliche e superare l’ostacolo della burocrazia comunale attraverso la protesta, la prototipazione o la dimostrazione in scala 1:1 della possibilità di cambiamento. Queste attività rappresentano l’esercizio del diritto alla città da parte dei cittadini;
- Strumento di governo, da parte di imprenditori o agenzie no-profit per coinvolgere maggiormente il pubblico nel corso dei processi di costruzione e sviluppo urbano;
- Fase Zero, per un primo test di progetti di trasformazione urbana prima dell’investimento sul lungo periodo;

Le prassi di UT possono essere autorizzate o non autorizzate, ma per essere comunque efficienti dovranno produrre effetti misurabili. In altre parole l’UT non è una forma di protesta su suolo pubblico, quanto una modalità di prototipazione, in grado di fornire indicazioni sulla possibile evoluzione futura dello spazio pubblico urbano.
Se siete interessati ad approfondire tutte le prassi di Urbanismo Tattico vi invito a leggere Tactical Urbanism, volume II (lo trovate in rete, scaricabile gratuitamente).