LA TOMBA BRION, la fragilità delle cose

Passo periodicamente per il Memoriale Brion. Lo ricordo prima della manutenzione di qualche anno fa, quando si chiamava Tomba Brion. Prima del suo ripristino filologico era più facile capire la fragilità degli equilibri poietici raggiunti da Carlo Scarpa nel cimitero di Altivole. L’equilibrio tra costruzione, composizione e ridondanza di dettagli è ancora ipnotico e forse ineguagliabile: è certo che si tratti di un capolavoro. 

Come spesso accade, l’architettura cimiteriale riesce a mettere in discussione alcuni assunti del fare architettura, e la Tomba Brion non fa eccezione. Adolf Loos, in Ornamento e Delitto del 1908, sostenne che ogni tomba, anche un semplice tumulo, è architettura. Questo aforisma stabilisce l’autonomia dell’architettura come artificio, senza alcuna dipendenza da questioni tecniche o ornamentali. E’ una linea di confine tracciata dalla modernità, dalla sua azione di semplificazione e di rimozione del unheimlich. L’autonomia dell’architettura è determinante se la si considera come il fondamento e il fine di una civiltà, la disciplina il cui compito è il più importante per l’uomo: la creazione di città (Moneo, 1976, p. 46). Il retaggio del prefisso archè – che denota superiorità, preminenza, eccellenza (Masiero, 1999, p. 13) – ha conformato secoli di riflessioni sulla disciplina, anche se con risultati spuri. L’architetto, secondo l’etimo greco, mette ordine, ma per questo deve tessere trame, nascondere macchinazioni (ibid., p. 14). La modernità (di cui Loos fa parte) ha preteso invece che l’architettura si liberasse di questo ruolo di mediatore tra natura e artificio. Nella modernità, il pensiero logico pretende di epurare definitivamente la costruzione da ogni trama nascosta, da ogni torbida macchinazione. Con il pensiero moderno, la tecnica è diventata il campo problematico del costruire, il contenitore del lato oscuro dell’architettura. Solo mettendo da parte la tecnica, la modernità poteva giungere alla condizione descritta da Rizzi: “quando l’architettura è cosa formata, quando non appartiene più alla dimensione dell’idea (…), è essenzialmente connessa con il pensiero che l’ha pensata. Questa innata qualità a non mentire la possiamo definire la sua più intima virtù” (in Severino, 2003, pp. 15-16). Secondo Rizzi, l’architettura per essere veritativa non può essere anche questione tecnica. Questa separazione ha generato numerosi contraccolpi nell’arte della costruzione. In ultima analisi, quindi, l’aforisma di Loos descrive l’artificio minimo, privo di tecnica, del tumulo, che diviene il simbolo di un’architettura priva di macchinazioni, nella quale la verità della costruzione si palesa senza mediazioni.

Veduta dell’ingresso al Memoriale, dal cimitero napoleonico. Sulla destra si può vedere il cedro pendulo.

Nella Tomba Brion, la tecnica ha recuperato invece il suo ruolo originario, e la macchinazione è finalmente tornata a far parte del costruire. Per questo, quando visitiamo l’opera di Scarpa ad Altivole, le parole di Loos rischiano di non farci vedere realmente l’intensa ricchezza tecnica della costruzione, spingendoci a trasformare ogni scelta poetica e costruttiva in evanescente allegoria, in qualcosa che ha un significato solo se rimanda ad altro da sé: l’acqua per la vita, l’alabastro per lo spirito, il legno per il rinnovamento, il calcestruzzo per la temporalità, la componente vegetale come soglia tra paesaggio – umano – e ordine naturale, e così via. Potrei elencare anche altri accoppiamenti, e probabilmente sarebbero ugualmente corretti, tutti parimenti significativi, come accadeva per le interpretazioni del Grande Vetro di Duchamp – artista amato da Carlo Scarpa, in quanto aveva capito la potenza estetica di una tecnica liberata dall’obbligo della finalità. Purtroppo il significato è tutt’altro che stabile, poiché si rinfranca nell’interpretazione e tende a scivolare verso il soggettivo. Non intendo quindi aggiungere nulla a quanto già scritto sulle vicende, sui significati e sulle allegorie della Tomba Brion di Scarpa, ma solo coglierla come un’occasione. Scrivere, qui, della Tomba Brion è dunque poco più di un pretesto per discutere del fare architettura.

Quella della Tomba Brion è senza dubbio una storia conosciuta, che vale comunque la pena di riportare nei suoi tratti più significativi. Nel 1969 Carlo Scarpa, già internazionalmente noto per opere piuttosto estranee alle tendenze nazionali e internazionali, venne incaricato della realizzazione della tomba di famiglia dalla signora Onorina Tomasin Brion, vedova dell’industriale Giuseppe Brion, originario di Altivole. Secondo le sue ultime volontà, il defunto intendeva essere sepolto nella propria città natale. Si tratta, ancora oggi, di una località esterna alle principali reti di comunicazione territoriali, posta ai bordi tra l’orizzonte piatto di una pianura, fondamentalmente agricola, e i primissimi rilievi delle Prealpi venete.

Veduta dal padiglioncino dell’acqua verso l’arcosolio. Sulla sinistra si vede il muro esterno dei propilei, con il meccanismo a contrappesi per l’apertura della porta verso il padiglioncino (attualmente rimossa).

Il progetto per autorizzare la realizzazione della Tomba Brion venne presentato al comune di Altivole nel marzo 1970. I lavori per il completamento del complesso monumentale proseguirono oltre il 1978, anno della prematura scomparsa di Scarpa, a causa di una caduta accidentale durante il suo ultimo viaggio in Giappone. L’opera venne completata secondo rigorosi principi filologici, anche sulla scorta della poderosa mole di disegni che ne descrivevano i dettagli esecutivi, i materiali, il funzionamento e il comportamento alla luce diretta e alla rifrazione (vista la diffusa presenza di acqua nel progetto). Molti di questi disegni sono stati revisionati da Carlo Scarpa, in seguito alla sua prima visita in Giappone nell’estate del 1969, in cui aveva potuto osservare i templi di Nara, Kyōto e Ise.

Scorcio tra la tomba dei cari (a sinistra) e il tempietto (a destra). Al centro dell’immagine si può vedere l’arcosolio.

L’area monumentale ad Altivole si è sviluppata, attraverso una serie di acquisizioni di porzioni di area agricola lungo i lati settentrionale e orientale del cimitero di paese, dagli iniziali 68 mq fino ai 2.400 mq del progetto realizzato. Il complesso della Tomba Brion non è un cimitero, dunque non può essere descritto dalla metafora di una “città per i morti”. Esso non è nemmeno un luogo strettamente privato. Non si tratta quindi nemmeno di una “casa per i morti”, ma di un luogo artificiale autoreferenziale. Nella Tomba Brion non viene fatto riferimento all’abitare per raccontare la complessità dei rapporti tra spazio, memoria e localizzazione. Lo spazio, nella Tomba Brion, ha poca importanza, in quanto esso è artificiale tanto quanto la costruzione. Questa propensione ad ignorare i tracciati e le striature dello spazio – determinanti, forse, per una morfologia dell’edificato – è un lascito della venezianità, del suo peculiare rapporto tra l’edificato e lo spazio, che ha radici nell’inconsistenza del bordo tra acqua e aria. “Prima di farsi le vie e le case, i veneziani dovettero fissare, ancorare la terra” (Bettini, 1953, p. 11).

La categoria della Tomba Brion non è lo spazio, ma il tempo.

Veduta laterale dei propilei.

La Tomba Brion è stata pensata come un giardino funebre, come ad Istanbul, in cui il luogo di sepoltura è vitale, accessibile e percorribile dai vivi. Si tratta di un giardino dei vivi e non di una città dei morti, allegoria adottata invece a Modena per il San Cataldo di Aldo Rossi del 1976. In un giardino sono determinanti i movimenti di terra e gli specchi d’acqua: la Tomba Brion è per la gran parte sollevata a +75 cm rispetto alla quota del vecchio cimitero e l’acqua (in vasche, in condotte, in doccioni, in caditoie) è uno dei suoi temi progettuali. Anche in questo caso dobbiamo fare attenzione a non considerare la terra e l’acqua come simboli o metafore. La Tomba è un luogo temporalmente attivo, in cui il cambiamento viene introdotto forzosamente da Scarpa. La vegetazione – il cedro pendulo, poi purtroppo morto e sostituito dall’attuale, posto negli anni ‘70 come una tenda all’ingresso dei propilei dal cimitero napoleonico – è il primo oggetto compositivo che incontriamo nel transito dal vecchio cimitero, prima di entrare nei propilei. Dopo la vegetazione, è l’acqua ad essere un poderoso agente di cambiamento. Come vedremo, l’acqua sfida i legami idrati e l’ambiente basico delle armature del cemento armato. La terra, invece, sfida la nostra stasi e ci permette di alzare il nostro sguardo verso un altro orizzonte. Il tempo è, prima di tutto, un continuo cambiamento, di stato e di posa.

Comprenderemo meglio l’importanza del tempo per la Tomba Brion se consideriamo quanto il morire, dal punto di vista antropologico, non può essere ridotto ad un passaggio definitivo, poiché i vivi e i morti sono una delle più antiche masse doppie dell’umanità, cioè si conservano reciprocamente. Scrive Canetti che il morire è una lotta fra nemici di forze disuguali, quella tra i vivi e i morti. Nel morire è in gioco una lotta tutta particolare. La battaglia è anche simulata come una lusinga per il moribondo. Il morto che passa nell’aldilà dovrebbe essere non ostile verso i vivi (Canetti, 1960, pp. 79 – 80). L’atto memoriale è solo una parte di questo stato di reciprocità, che non ammette alcun superamento dialettico e non consente alcun progresso. In sintesi: la reciprocità non permette alcuna modernità. Non possiamo cogliere questo quadro generale con un solo sguardo, quello che va a caccia di singole forme. Occorre uno sguardo ripetuto. Serve la sovrapposizione di singole occhiate, come se il nostro personale otturatore fosse rimasto aperto, lasciando che le tracce visibili  – e forse quelle invisibili – venissero registrate attraverso il tempo.

Veduta della tomba dei cari.

Il fascino della Tomba Brion emana dalla sua incontenibile capacità di riverberare continuamente significati possibili, grazie ai quali, attraverso i decenni, essa si rigenera ermeneuticamente – ovvero offre sempre nuovo materiale per l’interpretazione soggettiva. Travalica così le inevitabili corrosioni, gli errori costruttivi e progettuali che nel tempo hanno generato il suo diffuso degrado, fino a quando non si è reso necessario il recente restauro filologico. Penso sia stata questa splendida ridondanza simbolica una delle ragioni per cui, prima dell’emergere di diffuse lesioni nel cemento armato, non si è considerata invece la meravigliosa fragilità della sua matrice materiale. Nel corso del restauro era impossibile ripristinare quella fragilità, che forse solo uno sguardo differente – non occidentale, non soggettivo, ma archeologico – poteva cogliere. Il restauro è stato completato nel 2021, dopo circa tre anni di lavoro, (e quarantatré anni dopo il completamento originario della Tomba). Lo studio filologico, condotto attraverso lo studio accurato dei disegni di Scarpa, sembra aver funzionato come un inevitabile setaccio, ripulendo l’opera di tutto ciò che non aveva un significato riconosciuto o riconoscibile. Eppure ci sono anche sottotesti più minuti, alcune tracce narrative collaterali e impalpabili, che, come afferma Foucault, purtroppo vengono continuamente messe in secondo piano dall’attività sintetica del soggetto, occupato a riaffermare il proprio dominio sulle cose per realizzare la propria dimora (Foucault, 1969, p. 20). E se ci sforzassimo quindi di dare ascolto a queste altre voci, più flebili, quelle dei materiali e delle loro temporalità? Ecco la prima intuizione di questa esplorazione: la Tomba Brion, non essendo stata progettata come una dimora, è libera di mostrarsi come un compendio del costruire, ma ce lo presenta in tutta la sua fragilità. E’ dunque un’opera particolarmente ricca di indicazioni sul come si fanno le cose, proprio perché, come costruzione, non giunge mai a nascondere in una forma compiuta le conflittualità implicite nell’assemblare differenti materiali. Viene in mente un altro testo del 1969, cioè la Logica del senso di Deleuze, che cerca di descrivere questa condizione che precede il significato, in cui assistiamo alla distribuzione di pure singolarità, mescolate e coesistenti, senza ancora un ordine o dei concetti a tenerle lontane dall’interagire, dal comporsi. E’ questa semplice compossibilità il fondamento per una sintesi del mondo (Deleuze, 1969, p. 103), e ci potrebbe consentire di cogliere la fragilità come uno straordinario momento di sospensione di giudizio, di ridefinizione del nostro ruolo di soggetti, di riapertura al possibile prima che venga ridotto ad un insieme sistematico di significati.

Padiglioncino dell’acqua. Veduta dai propilei.

Per alcuni versi la ricerca poetica di Scarpa presenta dei tratti comuni anche con le esplorazioni di Foucault nell’archeologia del sapere e di Deleuze nella logica del senso. E’ una ricerca in cui il soggetto si assume la responsabilità del proprio percorso formativo tra le cose. Torna utile una nota di Piercorti, dal suo Carlo Scarpa e il Giappone (Piercorti, 2007, p. 54), in cui leggiamo che l’idea di gusto per l’architetto veneziano si identificava nel konomi giapponese. Nel konomi non c’è alcun riferimento ad una universalità (e condivisibilità) di principi estetici, come nella cultura occidentale. Il konomi è un atto di autodeterminazione e di rigore estetico, la possibilità per un autore di fissare da sé alcuni principi a cui poi attenersi con grande rigore. Non si tratta di un ideale di equilibrio statico – come potrebbe essere invece la concinnitas di Alberti – ma di un principio di armonia locale, nell’interazione alchemica tra gli elementi, ai quali viene riconosciuta un’agentività (agency) durevole e temporalmente attiva. Inoltre, al suo ritorno dal Giappone, nel 1969, Scarpa ha già sperimentato la possibilità di utilizzare materiali fragili, come il legno, la paglia e la carta, a patto di saperli preparare adeguatamente. Scrive Piercorti che “nella Tomba Brion molti particolari fanno pensare ad una ‘preparazione’ di questo tipo, rivelando la natura come il maggiore e il più valido degli alleati, capace di trasformare quel luogo in sollecito ricettacolo di emozioni, oggetti, fenomeni” (Piercorti, 2023, p. 19). 

Cerchiamo di esplicitare in cosa può consistere questa preparazione. Si tratta innanzitutto di una sospensione dell’atto progettuale per ascoltare ciò che persiste nel materiale, come caratteristica originaria o come risultato di un’ulteriore trasformazione operata dall’interazione delle agency. Vediamone alcuni esempi. Il legno non trattato ingrigisce, se sottoposto alle intemperie alla fine marcirà, ma se viene ebanizzato – utilizzando la Shou sugi ban, una tecnica giapponese di carbonizzazione superficiale che riduce l’umidità del legno – potrà rimanere incastonato in un soffitto, circondato dal cemento. Il primo legno dovrà essere sostituito, il secondo non potrà più esserlo. L’ottone Munz ha una bassa percentuale di piombo, quindi può essere immerso nell’acqua senza inquinarla, tuttavia ha una scarsa resistenza agli acidi, come quelli che si formano quando l’anidride carbonica si scioglie nell’acqua della pioggia. L’ambiente acido è temuto anche dalle armature del cemento armato, in cui le infiltrazioni di acqua con Ph inferiore a 8 trasformano gli idrati di calcio del cemento in carbonato di calcio – con una generale riduzione del Ph della matrice cementizia – e poi causano l’ossidazione del metallo di armatura. Per evitare la penetrazione dell’acqua è utile l’impermeabilizzazione data da un ulteriore strato superficiale, come quello composto da micro alghe, funghi, muschi e licheni, uno strato che viene comunemente considerato un’inutile sporcizia superficiale. L’Università Politecnica della Catalogna – Barcellona Tech – sta studiando le applicazioni per un cemento che invece faciliti la formazione e il mantenimento di uno strato organico in grado di assorbire la CO2 e di garantire un Ph basico. In questo caso, un’equilibrata composizione tra cemento, armatura e strato vegetativo sarà più simile ad un ecosistema che non ad una costruzione. La chimica subentra alla meccanica nel descrivere quanto accade tra le interfacce della materia. La preparazione riguarderà poi anche la disponibilità dei materiali ad entrare in assemblati sufficientemente stabili, anche se destinati ad avere una propria temporalità composita, o addirittura un principio di coabitazione. Una composizione focalizzata sulla forma e sui principi logici non è in grado di raccogliere questa ricchezza. La composizione diviene allora compossibilità, nel momento in cui il senso di ogni suo elemento alimenta anche il possibile funzionamento di altri elementi ad esso correlati.

La ricchezza di questi filamenti di interrelazione è sempre a rischio di obliterazione nella forma, la quale tende a ridurre la complessità per ragioni di efficienza. Con l’intenzione di valorizzare concettualmente questo pulviscolo di compossibilità, John Tresch, nel 2007, ha adottato il termine cosmologia per descrivere “qualcosa di più di un sistema di classificazione (…) che racchiude dimensioni affettive ed estetiche e il senso di coerenza all’interno di un gruppo, nelle loro parole, pratiche e oggetti” (Tresch, 2007, p. 84). Ecco la seconda intuizione di questa esplorazione: la Tomba Brion raggiunge il suo status di capolavoro proprio perché essa stessa racchiude una cosmologia completa, concettualmente autosufficiente ed espressione poetica di un konami autoriale compiuto e maturo. Questa è però un’ulteriore dimensione della fragilità della Tomba: essa non potrà infatti riferirsi ad universali, a metafisiche, ad altre strutture razionali che non siano i propri fragili equilibri interni. Ci troviamo in una cosmologia opposta a quella descritta da Rossi e Moneo per il San Cataldo, negli stessi anni in cui Scarpa elabora il progetti per Altivole: il costruire, nella Tomba Brion, è un fatto completamente tecnico, in quanto Scarpa riconosce alla tecnica costruttiva la capacità di approfondire ed esplorare le compossibilità che emergono tra i materiali. Il processo di oggettivazione del costruire – il suo realismo – non potrebbe mostrarsi con due applicazioni più distanti tra loro: da un lato Rossi è cartesiano e ipotetico-deduttivo, e l’architettura lavora per definire la forma (Moneo, 1976 – 2004, p. 41), dall’altro lato Scarpa è baconiano e induttivo, e la costruzione è l’intreccio di conoscenza e continua sperimentazione. 

Scorcio del tempietto dalla tomba dei cari.

Si tratta di un bivio concettuale molto vecchio, che possiamo ritrovare nel pensiero dei filosofi della natura, e che risale ad Aristotele e agli Stoici. Come ricorda Toulmin, nel suo The Architecture of Matter del 1962, “Aristotele e gli alchimisti condividevano un’unica dottrina che li separò completamente dai chimici del XVIII e XIX secolo. Tra il 1725 e il 1900 era convinzione comune che gli ingredienti basilari delle cose materiali avessero nature prefissate” (Toulmin, 1962, p. 150). Ma nel XVI secolo, filosofi della natura come J. B. van Helmont (1577 – 1644) tenevano ancora in maggiore considerazione i problemi di composizione (come fanno gli esseri organizzati ad acquisire una forma stabile?) su quelli di finalità (quale scopo hanno gli esseri organizzati?). Non riconoscere all’agency dei materiali un ruolo attivo sulla definizione delle loro composizioni è una profonda lacuna epistemologica. Tornando alla nostra indagine, e facendo sintesi, possiamo dire che: è possibile basare un’architettura razionale su morfologia e tipologia a patto di considerare prevalenti le sue funzioni e le sole componenti invariabili dei suoi materiali; di contro, è possibile invece elaborare un’architettura sperimentale a patto di considerare come fulcro dell’indagine le possibilità e i limiti di ogni composizione tra i materiali coinvolti nella costruzione. Mentre per Rossi la costruzione è un fatto mentale che trova uno specchio nella realizzazione materiale, per Scarpa è invece un fatto gestuale che attende di essere inscritto in un cosmogramma unitario. Entrambe le posizioni sono ragionevoli, anche se il portato conoscitivo della seconda è incredibilmente più ricco. Perché è proprio quando le cose non funzionano, o non sono disponibili, che possiamo vederle diversamente, estrapolandole dai loro contesti e usi ordinari; come scrive Tresch, è questo il punto di partenza della conoscenza scientifica (Tresch, 2007, p. 87). La fragilità è uno dei modi  in cui le cose, sia che siano state prodotte o che siano semplicemente esistenti, si rendono disponibili alla conoscenza altrui. Per completezza dovremo riconoscere che, anche se è molto più stimolante, questa seconda posizione è purtroppo anche economicamente limitante, in quanto, i secoli hanno quasi sempre mostrato che “la ricerca tecnica è un lusso” (Leroi-Gourhan, 1964, p. 212).

Arcosolio. Dettaglio degli strati di copertura.

Per evidenziare le tracce dei cambiamenti chimici nei materiali – un tipo di agency meno evidente di quella meccanica e spesso relegata all’interno dei sistemi di produzione o negli studi sulla chimica dei materiali –  abbiamo bisogno di uno sguardo non occidentale, dunque non focalizzato sulla stabilità delle forme e delle funzioni. Se teniamo conto di questo, allora possiamo accorgerci di quale profonda differenza risieda tra la Tomba Brion rappresentata nelle foto di Masaaki e il Memoriale Brion, che oggi possiamo visitare ad Altivole. Quest’ultimo è divenuto fin troppo accurato, privato di gran parte di quel senso di oggettiva fragilità tipica del prototipo tecnico. L’impressione è che sia diventata una macchina significante, ripulita e costretta a ripetere, visita dopo visita, la stessa identica storia (una storia d’amore, come quella tra Onorina e Giuseppe, o quella tra Scarpa e la sua opera, o quella tra noi cauti costruttori e l’opera dell’architetto veneziano). E’ una storia d’amore costretta, come vuole tradizione, ad essere senza tempo. Dal 2022 la Tomba è stata donata al FAI. In quel momento è stata rinominata Memoriale Brion, esaudendo così quello che noi visitatori volevamo fin dal principio: che fosse un’opera eterna, una storia sempre identica. Il Memoriale ha dimostrato al grande pubblico che questa sua seconda natura ha una forza mediatica notevole, divenendo set cinematografico per un film di fantascienza che fa del mito e della profezia la propria dimensione senza tempo.

Sekiya Masaaki era nato nel 1942, ed è stato molto amico di Tobia Scarpa, figlio di Carlo. Il fotografo giapponese non era riuscito a laurearsi, rimanendo in Cambogia nel corso degli studi universitari per realizzare un lungo tour fotografico sulle rovine di Angkor Wat. Il suo più grande contributo alla fotografia d’architettura, con il suo studio professionale ArchiMedia, è stata l’edizione in quattro volumi dell’opera completa di Otto Wagner, nel 1998. Subito dopo, Masaaki venne in Italia, presentandosi a casa di Tobia Scarpa. “Ha lasciato da me il suo materiale i suoi bagagli, facendo della mia casa la sua base. E in seguito, veniva ogni anno: lasciava da me le sue cose e cominciava a fare i suoi giri, a fotografare”, ha scritto Tobia Scarpa nel 2023 (Piercorti, 2023, p. 7). Masaaki aveva un progetto a lungo termine sull’opera di Carlo Scarpa, ma terminò improvvisamente nel 2002, con la sua morte. Il fotografo giapponese ha fotografato la Tomba Brion, prima che diventasse il Memoriale, prima che la fragilità del copriferro dei suoi cementi armati venisse puntellata, prima che i licheni venissero annientati sulle sue superfici, prima che la vegetazione venissa riconfinata. In alcune foto di Masaaki compare anche la nebbia, segno che il fotografo giapponese conosceva davvero bene la campagna veneta, in tutte le sue stagioni.

Lo sguardo di Masaaki è impresso nelle sue foto, e possiamo sperare di riuscire a guardare la Tomba Brion con le medesime intenzioni dei suoi occhi. E’ giunto il momento di chiedersi quanto sia ragionevole, in un discorso sul fare architettura, ridurre le innumerevoli cesellature della Tomba Brion solo alla loro fragile costruzione, invece di ricercare quelle similitudini, quei riferimenti letterari e poetici che hanno ispirato Scarpa nel corso dell’ideazione dei propilei, dell’arcosolio, del tempietto, del padiglioncino dell’acqua o della tomba dei cari? La mappatura di questa fitta – e vastissima – rete di riferimenti poetici è già stata in gran parte compiuta. Ma se vogliamo davvero indagare la Tomba Brion (e non i suoi significati, non le sue ragioni poetiche e nemmeno le sue allegorie) dovremo riuscire a mettere da parte il peso incombente dell’autore, lasciando che l’opera si mostri per ciò che è. La direzione di questa esplorazione è in parte sostenuta dall’ammirazione che lo stesso Scarpa mostrava per la meccanica – a cui spesso si accompagnava il vago disappunto per i colleghi dell’industrial design – anche se avevano garantito uno straordinario successo alla Vega di Giuseppe Brion. Per il maestro veneziano, gli industrial designer si limitavano a rivestire degli splendidi meccanismi con una forma comprensibile per la massa. E’ invece nei meccanismi che le ragioni d’esistenza degli assemblati dimostrano la convivenza necessaria, come se nell’assemblato ci fosse un principio di verità superiore a quello della composizione della forma. Ma per lasciare che la Tomba Brion si mostri al di fuori della lunga ombra del suo autore occorre forse una ragione meno biografica dell’amore di Scarpa per i meccanismi. 

Tomba dei cari: dettaglio della fessura nel getto del cemento armato.

Occorre quindi ragionare sul ruolo del disegno nel caso dei rapporti tra il soggetto e il mondo. Non parleremo qui delle differenze tra l’utilizzo del disegno in Scarpa e quello in Rossi  – sarebbe molto interessante, ma introdurrebbe un sottotema troppo complesso. Nella formazione delle basi della civiltà moderna, il disegno tende ad essere uno strumento estremamente potente (e con funzioni molteplici) per l’esercizio del dominio del soggetto. Scrive Latour che grazie al disegno “tu puoi presentare cose assenti (…). La prospettiva non è interessante in quanto consente immagini realistiche; è interessante perché crea ibridi completi: la natura vista come finzione, e la finzione vista come natura, con tutti gli elementi resi così omogenei nello spazio che oggi è possibile rimescolarli come un mazzo di carte (Latour, 1986, p. 7). Il disegno (solo a matita, secondo Scarpa) annota le intenzioni progettuali, ma è anche in grado di conferire al singolo soggetto-autore la capacità di controllare il lavoro di molti artigiani –  nel caso della Tomba Brion si tratta di Angelo Bratti, Saverio Anfodillo, Eugenio De Luigi e Paolo Zanon, e la falegnameria Capovilla. Un singolo disegno può descrivere la provenienza, la lavorazione, la composizione e il funzionamento di più oggetti insieme. Il disegno disloca, raccoglie e ri-dispone gli oggetti. Se immaginassimo una correlazione biunivoca tra il disegno e la realtà, come in alcune finzioni di Borges, allora la vera Tomba Brion potrebbe addirittura non essere quella costruita – e nemmeno il Memoriale restaurato, ma quella descritta nella straordinaria mole di migliaia di disegni (immaginativi, descrittivi ed esecutivi) prodotti da Scarpa sull’opera. Seguendo questa linea lungo il suo naturale sviluppo, potrebbe accadere l’impensabile: che in uno spazio virtuale un’intelligenza artificiale giunga a rivedere alcune parti della Tomba Brion, a patto che venga organizzato un esteso dataset, a partire dalle scansioni dei disegni autografi. Questo esercizio mentale ci serve per comprendere quale può essere la forza del disegno, una volta messo da parte l’autore: il vincolo fisico della costruzione, coi suoi inevitabili limiti, non potrebbe alterare in alcun modo la globalità delle iniziali previsioni del maestro veneziano, ed esse potrebbero portare anche ad un’opera diversa. 

Dunque, in modo controintuitivo, possiamo suggerire, per la Tomba Brion, di invertire il tradizionale rapporto tra disegno e costruzione. La costruzione sarà traccia del disegno previsionale, la sua parte materializzata, destinata fin dal principio ad essere una rappresentazione parziale di quanto inizialmente immaginato e poi trascritto a matita su carta da spolvero o carta vegetale. E’ questa incompletezza originaria, questa intrinseca fragilità ontologica, a sostenere la nostra intenzione di guardare la Tomba Brion senza l’accompagnamento del suo autore. 

Propilei. Dettaglio di sagomatura. Sul fondo si intravede il nuovo cedro pendulo dell’ingresso.
Soffitto dei propilei. Dettaglio degli inserti in legno ebanizzato.
Tomba dei cari: interno. Sulla destra si può vedere una porzione del muro di cinta esterno, inclinato di 60°.

Cogliere questi transiti, quelli tra le differenti temporalità degli oggetti e quelli messi in atto nelle dislocazioni dei disegni, è assai difficile. Lo sguardo non ci è avvezzo, nel suo continuo incasellare gli istanti. Tuttavia l’accurato posizionamento di elementi riflettenti sulla superficie opaca del cemento armato (le tessere dei mosaici, gli inserti dorati e i riquadri a stucco veneziano), unitamente alle sagome destinate a generare ombre riportate, rivela un primo indizio di come il progetto visivo della Tomba Brion fosse rivolto, ante litteram, alla percezione ecologica della luce ambiente, che “mette a disposizione delle informazioni sulle superfici riflettenti” (Gibson, 1986, p. 121). Ma esiste anche una dimensione percettiva ulteriore, quella dell’ascolto degli oggetti sonori (come li chiama Pierre Schaeffer nel suo Traité des objets musicaux del 1966) che vengono generati da alcune macchine sonore della Tomba, quali alcune lastre nel pavimento che conduce, all’interno dei propilei, verso il padiglioncino dell’acqua. Esse poggiano su un piccolo perno che permette loro di basculare nella propria sede di posa, grazie all’azione del peso corporeo del visitatore che le calpesta. In questo modo producono un suono sordo. Poi, per scendere dal giardino rialzato che circonda l’arcosolio in direzione del tempietto, troviamo alcune pedate a sbalzo, a lunghezza variabile, che emettono suoni di tono crescente, vibrando sotto i passi dei visitatori. Per estensione, possiamo ipotizzare che il muro di cinta, inclinato di 60° verso l’interno, possa funzionare anche come un deflettore di suoni, come accade al di sotto della tomba dei cari. Poiché molti oggetti della Tomba Brion letteralmente risuonano, pur non generando suoni puri, potremmo pensare che si tratti di una semplice trasposizione delle esperienze sonore avute da Scarpa in alcuni giardini giapponesi, in cui “si sentiva, nel silenzio del bosco, nel silenzio del parco, nel silenzio del giardino, una nota sonora che non saprei dire che nota fosse: era dell’acqua che entrava dentro una canna di bambù e faceva un certo suono” (Semi, 2020, p. 242). Tuttavia, data l’influenza della musica concreta su molti intellettuali dell’epoca (tra cui Eco, che scrisse Opera Aperta grazie alle discussioni avute con Luciano Berio all’Istituto di Fonologia Musicale presso la RAI di Milano, tra il 1956 e il 1960), possiamo ipotizzare che Scarpa abbia cercato anche di introdurre alcuni aspetti della composizione mutuati dalla musica sperimentale. L’oggetto sonoro, per Schaeffer, contiene potenzialmente dei valori musicali che vengono trascurati dalla teoria musicale. Scrive Schaeffer: “Quando nel 1948 suggerii il termine musique concrète, con questo aggettivo intendevo esprimere un’inversione nel modo in cui viene realizzata l’opera musicale. Invece di annotare idee musicali utilizzando i simboli della teoria musicale, e lasciare che vengano realizzate mediante strumenti noti, lo scopo era quello di raccogliere un suono concreto, a prescindere da dove provenisse, e di astrarre i valori musicali che potenzialmente conteneva” (Schaeffer, 1966, p. 7). E’ nel momento in cui questi principi di composizione musicale entrano in campo, rafforzando l’idea potenziale della fragilità del costruire, che possiamo intuire perché un caro amico di Scarpa, il compositore Luigi Nono, gli dedicò nel 1985 il brano A Carlo Scarpa, architetto, ai suoi infiniti possibili. Con due sole note, Nono dà voce a numerose composizioni possibili, intervenendo sui loro transiti e sulle loro microinterazioni. Nessuna forma, solo una straordinaria ricchezza di senso. 

Nota: spero che sia chiaro che la Tomba Brion e il Memoriale Brion si riferiscono al medesimo luogo. Ne ho scritto come “Tomba Brion”, ma è stato solo uno stratagemma utile per le finalità del testo. Il suo nome ufficiale è per l’appunto Memoriale Brion. Il confronto tra Il Memoriale e il Cimitero di San Cataldo (di cui ho scritto qui) è dovuto ad una riflessione banale: sono stati ideati e costruiti negli stessi anni da professori della stessa università (lo IUAV di Venezia), ma sono incredibilmente differenti tra loro. Infine, data la localizzazione defilata del Memoriale, offro sempre volentieri un passaggio agli amici che passano per Padova, per portarli ad Altivole in automobile, così che possano immergersi nelle macchinose costruzioni di Carlo Scarpa, poste fortunatamente al di fuori di un contesto urbano. C’è sempre qualcosa di inaspettato ad accogliere il visitatore. 

In una conferenza del 1978, tenuta a Madrid, Carlo Scarpa affermò che la Tomba Brion era l’unica delle sue opere che andava a vedere volentieri (Pierconti, 2023, p. 11).


Riferimenti bibliografici:

Bettini, S. (1953). Venezia. Novara: Istituto Geografico De Agostini.

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