ARCHITETTURA, DIGITALE, INTELLIGENZA, ARTIFICIALE – 2

Parte seconda – il nuovo, il visibile, il politico.

Come vi ho raccontato nella prima parte, pubblicata qui la scorsa settimana, sono passati più di due anni da quando il nostro studio Blu143 ha iniziato a sviluppare il progetto di un albergo completamente digitale, destinato alla produzione di contenuti e di ambientazioni virtuali per una casa di produzione di arredi. Il nostro committente intendeva sviluppare uno stage sufficientemente ampio da poter realizzare campagne fotografiche e riprese video, dallo spiccato fotorealismo, ma ricreate in vitro e dunque più economiche della realtà. Il fatto che il nostro contributo potesse rimanere focalizzato sull’immaginazione e sul concept design, pur dovendo mostrare una certa aderenza alla realtà costruttiva nei rapporti dimensionali e nei modi in cui i materiali simulati dovevano reagire alla luce e allo sguardo, ci ha ovviamente entusiasmati fin dal principio. Per sviluppare il design dell’albergo non abbiamo utilizzato IA generative, poiché erano ancora poco diffuse. Se dovessimo affrontarlo ora, probabilmente utilizzeremmo LookX, un’applicazione basata su IA e specificamente design oriented.

Il concept design dell’albergo doveva essere nuovo, ma anche credibile. Forse per l’ultima volta, il gesto dello schizzo e il pensiero cercavano un accordo fondato sul costruibile. Pensavamo fosse semplice, dal momento che avevamo a disposizione uno spazio virtuale senza fine e non sussistevano limitazioni di budget. Purtroppo, di fronte a questa vertiginosa ampiezza del possibile, è emersa fin dal principio una questione, relativa alle idee e alle visioni residuali che si mescolano alla nostra immaginazione attiva. La creatività, ci ricorda Margaret Boden, docente di scienze cognitive nel Sussex, è una dote che ci accomuna tutti, e non ha nulla di intrinsecamente geniale: ogni nostro gesto contiene creatività. Inoltre, i suoi processi sono tanto più efficienti quanto più riescono ad esplorare e trasformare idee già pensate. Dunque, la residualità di cui cercavamo di liberarci alla ricerca del nuovo, non solo era un bene, ma era anche necessaria. Il nostro pensiero, suggeriscono poi Peter Gärdenfors, collega svedese di Boden, e Jean-Jaques Wunenburger, direttore del Centro Gaston Bachelard di ricerche sull’Immaginario e la Razionalità, mostra anche una particolare propensione a pensare per geometrie e immagini. La creatività opera preferibilmente nel campo del visivo, l’unico a poter garantire quella straordinaria ricchezza di informazioni necessaria ad aumentare le opzioni possibili.

E’ interessante quanto le riflessioni sul nuovo riguardino, contemporaneamente, sia il cosa (dunque il nuovo come oggetto) sia il come (quindi il nuovo come processo). Il nuovo permette di mescolare le azioni riguardanti l’uso degli strumenti e la realizzazione di prodotti. Si potrà invocare la novità anche nel caso di un prodotto scadente o esteticamente banale, a patto che per esso siano stati utilizzati procedure o strumenti innovativi. L’innovazione è una pellicola passeggera, come un’evidenziazione temporanea, difficile da consolidare, che deve potersi applicare su superfici già esistenti. Recentemente, Oliver Wainwright sul The Guardian, nel suo articolo “It’s already way beyond what humans can do: will AI wipe out architects?’ pubblicato il 7 agosto 2023, ha riportato le parole dell’architetto Wanyu He, fondatore di della compagnia XKool (di cui LookX è la versione anglofona), il quale, dopo un periodo di pratica presso gli OMA di Rem Koolhaas, ha dovuto ammettere che “il processo di progettazione e di costruzione erano così tradizionali e privi di innovazione”. Per quanto sia passata piuttosto sottotraccia, questa affermazione, da sola, basterebbe a segnare un passaggio epocale, per il quale la ricerca di OMA/AMO nell’architettura è definitivamente storicizzata.

Purtroppo, mentre per il campo del linguistico abbiamo elaborato specifiche metodologie di analisi del significato, della grammatica e della sintassi, per il visivo non siamo mai stati particolarmente attrezzati, per una ritrosia culturale che si è condensata, nei secoli, attorno al suo essere intrinsecamente fuzzy. Mentre il segno linguistico sembra essere perfetto per applicarsi ad una logica binaria, il segno iconico sembra invece propendere per una logica ternaria, in base alla quale l’esito della ricerca (del vero, dell’oggettivo, ma anche del bello) è sempre rinviato, sospeso in attesa che il processo di verifica si compia. Questa sospensione fa sì che l’immagine sfugga, almeno in parte, all’essere presente della rappresentazione, e che trasli verso il passato del memoriale o verso il futuro dell’immaginario. La memoria e il futuro sono i domini di una parte del progetto che tendiamo a non considerare: il politico. L’immagine funziona così in modo assai diverso dall’enunciato linguistico, e ha un lato politico che tendiamo a ignorare forzosamente, poiché quando lo abbiamo visto in azione, dalla propaganda alla pubblicità, dalla post-verità alla storia, ci ha sempre spaventato a morte. Inoltre, le immagini, molto più degli enunciati, hanno la capacità di aderire alle discipline, alle cose, ai pensieri, alla significazione, alla rappresentazione, creando un sostrato colloso in cui è praticamente impossibile ricostruire archivi o determinare rapporti di genalogia. Nelle immagini il progetto dilaga, potendo ricostruire anche i rapporti tra tracce passate e già sentite.

Tra gli enunciati linguistici e le immagini sussistono comunque delle similitudini. Non sono solo i primi a raccogliere le serie precedenti e le persistenze, come i significati, gli etimi e le storture derivanti dall’uso fonetico. Accade una cosa simile anche alle immagini, ma con un processo inverso. Mentre gli enunciati funzionano come dei contenitori forati immersi nel campo enunciativo, le immagini catturano significati dal referente, secondo un processo proattivo, non potendo significare in modo autonomo.Ad ogni cattura corrisponde un’estrazione forzata di significato. Il compito principale delle immagini, infatti, è sempre meno quello di rappresentare e sempre più quello di rendere visibile. La civiltà occidentale è particolarmente intrecciata al visivo. Stephen Toulmin e June Goodfield, nel loro The Discovery of Time, ci ricordano che, fin dal Medioevo, “il senso della vista era il mezzo principale attraverso il quale noi acquisiamo conoscenza, (e identifichiamo) la luce come il legame spirituale capace di connettere l’intelletto umano all’intelletto divino”. Anche Johan Wolfgang Goethe, nel suo scritto La Teoria dei Colori, ne dà traccia, quando, nell’osservazione n. 852, scrive che: “il chiaroscuro fa apparire il corpo come corpo, in quanto luce e ombra ci danno la nozione della materialità”.

Diversamente da quanto comunemente pensiamo, le immagini hanno una loro durata, presentano una particolare persistenza. Introducendo la Teoria di Goethe, Giulio Carlo Argan ha scritto che “la permanenza le lega in una continuità ritmica che verosimilmente dipende dalla tendenza a non recepire la realtà come una proiezione ma come un discorso”. Sul fondo del visivo, la questione del tempo ci sembra dunque prevalere su quella dello spazio, che invece era centrale per il linguaggio. Quando ci confrontiamo con le immagini e con la loro intrinseca temporalità, il confronto tra il nostro e il loro tempo produce un ritmo. Scriveva Jean-Luc Nancy che “il fiorire, l’essere, il venire e il partire, lo sbocciare e il chiudere – si dà seguendo una misura: in un ritmo”. Per Nancy, grande filosofo delle immagini, il ritmo riguarda un processo di costruzione della forma tanto quanto lo schema, ma conferisce a tale processo un’irregolarità caratteristica, nella cui imperfezione si cela lo spettro dell’irrealizzazione. Il ritmo delle immagini può dunque essere rivolto nell’altra direzione, mostrando l’irrealizzato e rendendolo presenza. Scrive ancora Nancy: “ripetiamolo, qualsiasi cosa diventa immagine soggetto, cioè, in definitiva, soggetto-di-senso”. Già la musica elettronica e digitale aveva forzato l’ingresso dell’indagine culturale nel campo mirabolante della creazione dal nulla, sintetizzando timbri, forme d’onda e ritmi, trasformando il cambiamento e il ritmo in processi di irrealtà. Ma, con le attuali tecniche di ricomposizione dell’immaginario da parte delle IA generative, l’irrealtà non può rimanere reclusa nel solo ambito estetico, come invece accadeva per la musica elettronica. Per l’umano il senso della vista è fin troppo intrecciato sia all’esperienza estetica (del gusto) che a quella della percezione: una volta avuto accesso illimitato a una delle due, viene garantito un collegamento diretto anche all’altra. Il nostro attuale apparato visivo globale (che genera e consuma immagini ad un ritmo impressionante) sta operando esattamente in questa direzione, generando allucinazioni basate sul cortocircuito tra dimensione estetica e dimensione percettiva.

Con le immagini abbiamo trovato il modo di prolungare certe temporalità, non solo in modo memoriale, ma anche in modo proiettivo e progettuale. Le immagini non toccano solamente il dominio del percettivo o del cognitivo, poiché non riguardano più solamente il rapporto tra un soggetto e il mondo. Il visivo attuale ha moltiplicato entrambi. Si è estesa, così, anche un’altra dimensione del visivo, quella forse meno evidente, cioè quella politica. Secondo Bruno Latour, i primi processi di visualizzazione, dedicati alla realizzazione di mappe, concettualizzano compiutamente l’oggetto come qualcosa “che ha le proprietà di essere sia mobile ma anche immutabile, presentabile, leggibile e combinabile con un altro”. La conoscenza attraverso la visualizzazione sarà sempre una raccolta/campionatura per permettere di dislocare gli oggetti dai progetti, creando una distanza politica tra i due capi dell’azione. Nel suo Visualization and Cognition: Drawing Things Together, Latour sottolinea questa prospettiva politica che accompagna i processi di visualizzazione, affermando che “un nuovo interesse nella Verità non proviene da una nuova visione, ma dalla stessa vecchia visione applicata a nuovi oggetti visibili in grado di mobilitare in modo diverso lo spazio e il tempo”. Dobbiamo tenerlo bene a mente: i processi di visualizzazione e di ricomposizione delle immagini, che spesso vengono descritti come puramente estetici, nascondono, al di sotto della soglia del visibile, la loro poderosa valenza politica.

In modo controintuitivo, l’eccesso di visibilità rende invisibile il politico, che però tende a riemergere ai margini del visivo, nell’oscurità e nei fantasmi (come già ci ha indicato Jacques Derrida, quando afferma che ‘sarà necessario imparare dagli spiriti, anche e specialmente se questo, lo spettrale, non esiste’). Potrebbe tornare utile, allora, considerare, simmetricamente, l’estetica come disciplina politica, data la sua propensione all’indagine sul valore delle immagini. Poiché gli oggetti (visivi) esercitano la loro funzione di accentramento del potere grazie alla loro propensione alla composizione, allora il design sarà obbligato a includere nei propri processi anche altre linee di enunciazione, altre serie funzionali, altre discipline. Il design sarà obbligato a tradire il suo essere subordinato all’obbiettività dell’ingegneria e alla dualità forma/funzione, ricostituendosi attorno alla sua capacità meno considerata: il riuscire a trattenere insieme gli oggetti, attraverso l’estetica. Purtroppo, avendo a che fare con l’invisibile e i suoi fantasmi, il design dovrà occuparsi, anche, di quella zona franca che è sempre più presente tra i frammenti del possibile. Molte delle configurazioni del possibile, disperse caoticamente in questa zona, recano traccia dei processi di estrazione e disaggregazione dei vecchi enunciati, ridotti in pezzi da poter ricomporre liberamente. Per questo dovremo dedicare, nella terza parte della nostra indagine, una riflessione focalizzata su questo processo, che riguarda specificamente la costruzione dei dataset, componenti fondamentali delle modalità di generazione (di testi e immagini) ad opera delle IA.

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