Il 2 dicembre 2024, nel corso di una serata pubblica tenutasi all’interno della splendida biblioteca del comune di Veggiano a Padova, con il compositore e amico Carlo Carcano ci siamo addentrati, ciascuno con i propri strumenti interpretativi, in un tema che avevamo descritto con le parole “oltre la solidità”. Era un titolo che compariva nelle locandine, per nulla specifico, ma che pretendeva di mostrare la nostra intenzione di raccontare due autori che avevano messo a dura prova i limiti espressivi delle proprie materie poetiche. Le biografie al centro della serata erano quelle di Carlo Scarpa e di Luigi Nono, entrambi appassionati della cultura giapponese, entrambi veneziani. Riporto qui alcune note che avevo preparato in anticipo, dopo averle integrate con alcuni spunti di Carlo che ho annotato nel corso di quell’incontro.
Siamo partiti con l’esplorare, per Scarpa, un tratto della sua poetica che ci è parso di scorgere in filigrana nelle sue opere più mature – intendo il museo di Castelvecchio e il Memoriale Brion – una volta scostate l’opulenza dei materiali e un certo eccesso di disegno. Si tratta della sua instancabile ricerca per la coesistenza tra i materiali. Se già ammirate la poetica del maestro veneto, se già conoscete le sue opere, per la gran parte sparse in questo nostro territorio così sensibilmente privo di grandi paesaggi, così tragicamente orizzontale ed esteso, allora permetteteci di aggiungere quest’altra ipotesi, alle molte già in campo.
Un caro amico di Scarpa, il compositore Luigi Nono, nel suo L’errore come necessità del 1983, scriveva che l’errore è ciò che viene a rompere le regole. Nel progetto, come nella partitura, l’errore è quanto non è descritto e non è trascritto, e per questo, quando compare, esso mostra tutta la forza del possibile. Le sfide costruttive lanciate alla materia, l’uso anomalo degli strumenti musicali, i lunghi silenzi che si frappongono tra le stanze sonore del brano A Carlo Scarpa architetto, sono solide mappe che hanno la funzione principale di mettere in luce ciò che sta oltre questa solidità, ai bordi dell’esistente.
La presenza di Carlo Carcano, come altro relatore, è stata quindi fondamentale. E poi le buone indagini si fanno in coppia, ed è meglio che sia una coppia spaiata. Voglio dire: se da un lato un architetto fatica a parlare di Scarpa ed è costretto a riferirsi alle sue opere perché sono le sole cose che può capire – per quanto le agiografie del maestro veneto siano numerose – dall’altra parte un compositore potrà, da spettatore dell’architettura, parlare di quello che la costruzione non riuscirà mai ad afferrare, ma che ne costituisce il fondo e l’interposto: il vuoto, il silenzio da cui si originano i suoni. E che dire, ancora, di un architetto che, da semplice ascoltatore, si lascia affascinare dalla teoria degli oggetti sonori di Schaeffer, dal loro esistere al di fuori della composizione musicale, dalla loro capacità di proporre forme prima che una teoria della composizione decida, a priori, cosa può entrare in composizione?

La solidità
Partiamo da qui. La solidità sembra essere un concetto prettamente occidentale. SOLIDO, dal lat. solĭdus, “intero, compatto, massiccio, senza cavità o vuoti interni”. Ciò che è solido è solitamente:
- di forma tridimensionale, volumetrica
- di materia compatta, priva di spazi vuoti
- compositivamente semplice, immediato, comprensibile
- strutturalmente robusto e resistente
- compiuto, completo
- dalla forma identificabile e identitaria
- tangibile
- reale.
La solidità si raccoglie nell’unità della forma, e la composizione solitamente supera la costruzione, appiattendo le gerarchie interne e raffreddando le propagazioni tra i livelli che le compongono (citiamo lo splendido L’espansione gerarchica del successo differenziale di E. S. Vrba e S. J. Gould).
Ascolto
Generalmente consideriamo l’ascolto come un esercizio secondario, rispetto alla visione. La fontanella alla Fondazione Querini Stampalia a Venezia e i dispositivi sonori del Memoriale Brion ad Altivole potrebbero allora sembrare orpelli inutili. Eppure l’ascolto può definire un’intera civiltà. Scriveva Schaeffer nel 1966 che “(ci sono) sistemi musicali inconsci, formati simultaneamente dalla pratica e dall’esercizio all’ascolto che rendono i membri di una civilizzazione musicale capaci di riconoscere caratteristiche che sono rilevanti, ma che al contempo li rendono praticamente sordi alle caratteristiche non rilevanti”. Non è per nulla casuale, quindi, che Luigi Nono abbia intitolato la sua opera, eseguita per la prima volta il 25 settembre del 1984 nella Chiesa di San Lorenzo di Venezia, Prometeo – tragedia dell’ascolto. Cosa non siamo in grado di ascoltare, quindi?
Venezia
Ci pare che la poetica di Scarpa, espressa nel ripristino dell’esistente e nella costruzione del nuovo, sia in ogni caso sempre la medesima: quella di una continua ricerca rivolta alla coesistenza. L’esistente non può venire fissato nel tempo e nella percezione, come un documento storico. Eppure così si pone un altro problema: come farlo rivivivere? E’ qui che il visitatore dello spazio scarpiano viene trasformato in complice partecipe, grazie ad un complesso progetto sinestetico. Gli vengono proposti nuovi punti di vista, nuove percezioni possibili, nuovi suoni, tutti progettati per portarlo alla prossimità, al di sotto della distanza dello sguardo. Il visitatore diviene spettatore di una performance dello spazio espositivo ed architettonico che muta col mutare del punto di vista, come avviene nei giardini giapponesi.
Venezia, dunque. La coesistenza è sistematica nell’unicità insediativa di Venezia. E’ lì che non è possibile distinguere le parole dalle cose, poiché tutto, anche l’ornamento, è funzionale ed estetico insieme. Bettini dedicherà gran parte della sua ricerca al tentativo di descrivere l’unità di questo Kunstwollen veneziano, sostenendo che si tratta di una straordinaria forma di autopoiesi urbana, che Francoise Choay definì semiogenia. Occorre qui riportare uno splendido passaggio di Bettini, che ben descrive la questione in gioco: “qui, in queste isole, essi trovarono una natura priva di plasticità – non monti o colline o masse d’alberi – solo acqua ed aria: elementi puri, immateriali, di colore. E la forma di questa città, tutta costruita dall’uomo, a cominciare dallo stesso terreno su cui si imposta, essi la sognarono fiorire tra l’acqua e l’aria: innestarsi sulla linea inafferrabile, quasi indistinguibile, dove l’aria e l’acqua si toccano: le quali sono illimitate, come dimensioni: sono puri valori qualitativi, che non possono essere formati, cioè dominati e composti, che nell’ordine del tempo.”
Giappone
Cosa può significare il legame poetico tra Scarpa e il Giappone? Si trattava di un’affinità elettiva verso un’esaltazione del composto in contrasto con la necessità di una forma? Oppure era un modo per sottrarsi ad un certo dibattito ideologico che, negli anni Sessanta e Settanta, è sembrato conformare l’insegnamento delle discipline dell’architettura in Italia? E ancora: non poteva invece trattarsi di un riconoscimento di un altro modo di conoscere lo spazio che non fosse quello strettamente funzionale o sociale? Mentre raccoglievamo informazioni sul tema è diventato chiaro che Carlo Scarpa sarebbe diventato un simbolo, capace di tener annodati alcuni di questi filoni grazie alla sola ineguagliabile maestria del suo interagire con il mondo materiale.
I dispositivi scarpiani mostrano molti sawari e miseba, per usare due termini giapponesi tra loro abbastanza simili per indicare eventi accentuanti che mettono in evidenza i momenti centrali di una rappresentazione. Ma essi vanno calibrati molto accuratamente, poiché, per la cultura giapponese, essi dovranno essere degli accenti su una tela di staticità senza tempo. Ha scritto Kazuo Shinohara che “il movimento continuo da un punto di osservazione ad un altro dimostra la capacità umana di avere, in uno spazio omogeneo, una visione continua. La consapevolezza del movimento è, indubbiamente, occidentale; essa, infatti, non si annovera tra le concezioni sviluppate dalla cultura del nostro Paese. L’architettura giapponese non ha tempo.” E’ affascinante considerare quale straordinario intreccio ci porge la poetica scarpiana, che ha basi solide nella temporalità veneziana pur anelando alla staticità senza tempo della cultura giapponese.
Il vuoto
Mentre lo spazio è la dimensione della visione, della soggettività e del controllo, il tempo è invece la dimensione dell’ascolto, della collettività e dell’espressione. Nella visione, il vuoto è un mezzo da attraversare con lo sguardo, esso è contenuto e delimitato dagli spazi. Di contro, nell’ascolto il vuoto permette all’unicità del tempo reale di svelarsi, sempre rinnovato. Il vuoto va però scoperto ed esplorato, nella sua inafferrabilità.
Per questo abbiamo unito due percorsi paralleli, da un lato il costruire – che allontana il vuoto per timore o per profondo rispetto, dall’altro il risuonare – che accoglie il vuoto come possibilità.
Parliamo di vuoto perché è il fulcro che sembra far ruotare insieme, nella costruzione, le tradizioni insediative veneziane.
Il vuoto funziona anche come un interruttore, che ci permette di cambiare categoria progettuale, passando simultaneamente dallo spazio al tempo.
Oltre l’ossessione per il linguaggio
Carlo Scarpa è stato probabilmente uno dei primi architetti italiani ad occuparsi della riqualificazione degli edifici esistenti nel secondo dopoguerra. Scarpa lavorò al Palazzo Abatellis, a Palermo, già nel 1953. Per la cultura attuale del design architettonico il rapporto tra il nuovo e l’esistente è basato su metodologie che si sono consolidate, in Italia solo verso la fine degli anni ‘70. Eppure, fino al 1986 il lavoro di Scarpa non sarà ancora conosciuto al di fuori del nostro paese. Fu proprio in quell’anno, infatti, che l’architetto e ricercatore Richard Murphy, dall’Università di Edimburgo rimase impressionato da Castelvecchio, al punto di rilevare l’intero as built scarpiano e organizzare, con l’aiuto dell’allora direttore Magagnato, una delle prime mostre su Scarpa, a Edimburgo nel 1990.
Non possiamo commettere l’errore cognitivo di considerare la costruzione, coi suoi elementi e i loro materiali, come significativi di altro. Questo è stato uno degli errori della storiografia degli anni ‘70, così ossessionata dalle strutture linguistiche da spingere Manfredo Tafuri a rispolverare un vecchio detto del poeta tedesco Stefan George, per cui “nessuna cosa sia dove la parola manca”. A quel tempo le correlazioni tra forma e linguaggio sembravano fondative di una disciplina architettonica davvero collettiva, in quanto capace di esplicitare una struttura significante riconoscibile a tutti, nonché di veicolare un set di significati (morfologici, insediativi, storici e documentali), a tal punto univoci da poter essere catalogati in tipi edilizi. Il costruire veniva così posto in secondo piano, come se non esso non potesse più accollarsi la sua vecchia funzione di intermediario, scalzato dalle tipologie e dalle grammatiche – su cui era ancora possibile costruire molte teorie e alcune storiografie. Il costruire, così centrale nella poetica scarpiana, venne incluso nel più socialmente consono produrre, divenendo solo un tema filosofico lontano e perdendo la sua vicinanza all’umano. Ci sono dunque molti aspetti delle cose che non riusciremo a conoscere finché continuiamo a spostare il nostro sguardo altrove.
La vicinanza alle cose
E’ questa vicinanza alle cose che vorremmo quindi recuperare con la nostra indagine. I tempi ci sembrano maturi: viviamo in un mondo in cui l’oggetto tende a superare il soggetto, e in cui molta ricerca radical degli anni ‘50 e ‘60 sembra tornare in auge. La parola è stata scalzata dall’immagine, e il disegno torna ad emergere, come assemblato di tracce. Torna utile ricordare qui l’incipit di Nel Labirinto, pubblicato da Grillet nel 1959: “Questa è una storia inventata, non una testimonianza. Si tratta, tuttavia, d’una realtà strettamente materiale, nel senso che non ha pretese allegoriche di sorta. Il lettore è dunque invitato a vedervi soltanto le cose che gli vengono riferite, senza cercarvi più significato o meno che nella propria vita, o nella propria morte”.
La vicinanza alle cose è stata lentamente ricostruita dalla filosofia, dalla sociologia e dall’epistemologia degli ultimi 40 anni. Anche l’architettura si è mossa in questa direzione, tornando a scoprire, appunto, la costruzione. Nella sua prolusione del 1985, anche Rafael Moneo, che nel 1978 aveva profondamente ammirato il distacco di Rossi nella sua ricerca di una poetica che unisse forma e significato al di là del costruire, sembra ritrovare nella costruzione la concretezza della disciplina. Ecco qui di seguito le due posizioni, per alcuni versi differenti, espresse, nell’arco di meno di un decennio, dallo stesso Moneo:
“(1978) L’architettura non può essere impostata come lavoro individuale, che in una società competitiva provochi sistematicamente novità. (…) L’insistenza sulla permanenza, sulla capacità della memoria di riconoscere il passato e vivere la storia, significa l’abbandono deciso di un’idea di architettura intesa come compito soltanto personale (…). Infatti, se non interviene nel vuoto, in radicale solitudine, ma sa riconoscere l’aspetto collettivo della città, l’architetto in quanto individuo potrebbe addentrarsi in quel campo in cui l’architettura possiede un proprio spazio, sino a darle compimento.
“(1985) Credo che nella cruda realtà della costruzione si possa considerare con maggiore chiarezza la natura di un progetto, la consistenza delle idee. Credo fermamente che l’architettura abbia bisogno del supporto della materia; e che ciò che viene prima sia inseparabile da ciò che viene dopo. L’architettura arriva allorché i nostri pensieri su di essa acquistano quella condizione di realtà che solo i materiali possono conferirle. Solo accettando e patteggiando i limiti e le restrizioni che l’atto del costruire comporta, l’architettura diviene ciò che essa è realmente”.
Venire a patto con i materiali e con la costruzione può sembrare una resa. Tuttavia ci ricorda una riflessione fatta in quegli anni da Foucault, che nel 1980 diceva che “la semplice affermazione della presenza di una lotta (struggle) non può funzionare come inizio e come fine di tutte le spiegazioni dei rapporti di potere. Questo tema della lotta diviene realmente operante solo se si stabilisce concretamente – per ogni caso particolare – chi è ingaggiato nella lotta, quale sia l’oggetto della contesa, e come, dove e in base a quali modalità essa evolve”. E nel caso della costruzione, essa non è forse una lotta sufficientemente depotenziata tra i materiali, così che i suoi effetti, soprattutto quelli imprevisti, gli errori, lascino tracce sufficientemente persistenti da venire comprese, prima che la controversia divenga lotta?
Quel che ci pare è che Carlo Scarpa abbia rappresentato un altro modo di esercitare la professione dell’architetto, altro rispetto alla produzione industriale, ma anche altro rispetto alla necessità ideologica di fare dell’architettura una disciplina necessariamente sociale e collettiva. Di fronte alle radicali trasformazioni culturali degli anni ‘60 e ‘70 si è voluto ad ogni costo assemblare un concetto unitario (la città) grazie ad una procedura (l’architettura) che potesse sostenere e produrre questa stessa unità. Ma l’assemblaggio ha mostrato il suo più grande limite: la sua unità è continuamente costruita da innumerevoli artefici che disputano di continuo, per trovare accordi stabili. Per questo, secondo alcuni, l’architettura, come ogni oggetto composto destinato ad una o più funzioni, è quasi obbligata a rispondere all’indeterminatezza, soprattutto quella dell’umano. Come scrivono Colomina e Wigley: “il design è una difesa. Molte teorie del progetto presentano l’umano come fosse sottoposto a qualche tipo di minaccia che necessità di essere urgentemente contrastata dal design”. La città è un’opera aperta, che raramente esprime una volontà poetica unitaria. Da tale apertura riverberano e si mescolano cause ed effetti, che minano sia l’unità dell’idea di città che il sodalizio – tanto anelato – di una forma e un linguaggio. Queste posizioni idealtipiche potrebbero costituire un ostacolo cognitivo, un bias. Pensare che tra l’umano e il non-umano (l’architettura, in questo caso) esista un rapporto di causalità unidirezionale, come nel caso soggetto-oggetto, implica dunque non tenere in considerazione una buona metà di quello che potremmo conoscere: in che modi gli oggetti ci modificano? Oggi il discorso sui social-media e sulle tecnologie digitali ci ha abituati a questa bidirezionalità, ma ancora pensiamo che essa non valga nell’analogico. E se non fosse così? E se costruire fosse anche un modo, quello della mano e del gesto, per conoscere? A ben vedere, l’aggettivo “costruito” assume connotazioni assai diverse tra le discipline. Per l’ingegneria e l’architettura, la costruzione è sinonimo del reale (l’architettura non può mentire, hanno detto alcuni), ma per le scienze sociali e naturali, dire che qualcosa è “costruito” significa che non è reale (Bruno Latour). Di colpo la costruzione, come il progetto, sembra funzionare in due direzioni, come un ponte, tra un mondo pieno di oggetti e un’umanità piena di soggetti, entrambi intenzionati a conoscersi reciprocamente.
Tracce
A parte pochi edifici (la Banca Popolare di Verona e alcune case private), il lavoro di Scarpa non si esprime quasi mai mediante una forma architettonica unitaria e volumetrica. E’ infatti l’elemento ad essere volumetrico, ad occupare uno spazio, mentre la composizione degli elementi è sempre affidata ai disegni frontali, ortografici. Dunque la rappresentazione tradizionale dell’architettura mediante ortografie (piante, prospetti e sezioni) non descrive i progetti scarpiani nella loro consistenza edile ed urbanistica (in molti casi non esistono nemmeno le piante definitive). Di contro, tuttavia, le soluzioni di dettaglio sono accuratamente rappresentate mediante un disegno ridondante, che però non è prodotto per dar conto di un linguaggio formale collettivo, organizzabile in morfemi e grammatiche. Esso è invece un’opera di paziente traduzione, rivolta principalmente ai suoi fidatissimi artigiani, gli unici veri compagni della sua ricerca.
Eppure queste dettagliatissime rappresentazioni non riescono ancora a descrivere completamente il progetto scarpiano. Per sua stessa affermazione, il progetto cambia in fase d’opera (noi costruttori e compositori lo sappiamo benissimo, è questa la sua più straordinaria qualità) e non si può sapere fin dal principio in che modo andrà a finire. Potremmo vedere quindi gli esecutivi scarpiani come delle mappe, che descrivono simultaneamente lo spazio e la poetica, dunque l’incontro tra il pensiero formale e la prassi artigianale che si è consolidata nei secoli attorno ai materiali della costruzione.
La non solidità
Siamo così arrivati al NON SOLIDO, e quindi a ciò che è non intero, non compatto, non massiccio, dotato di cavità e di vuoti interni”. Per essere più specifici, esso è:
- dalla superficialità accentuata
- con molti spazi vuoti
- dotato di una ridondanza di elementi e meccanismi, complesso
- in equilibrio statico minimo, raramente iperstatico
- quasi incompiuto, aperto
- sensibile alle tracce, disponibile alla conoscenza
- con trasparenze e riflessi
- reale (?)
Quando ci troviamo oltre la solidità, le gerarchie contano (e potremmo chiederci a lungo cosa accade quindi alla forma). Conta anche la possibilità di apprendere nuove cose, poiché la costruzione è ancora evidente, e così pure i sotto sistemi che permettono altre combinazioni, anche interpretative (qui vi rimandiamo ad Adhocism, un testo del 1972, scritto da Charles Jencks e Nathan Silver). Ma come giungere poeticamente a superare la solidità senza, per questo, rinunciare alla costruzione? Abbiamo tratto alcuni insegnamenti da Carlo Scarpa, e ve li proponiamo qui di seguito:
- mettere in equilibrio gli opposti
- far galleggiare
- dare risalto agli elementi
- rendere autonome tra loro le forme e le funzioni (questo ricorda il metodo divisionale tipico dell’architettura giapponese, evidenziato da Shinoara nel suo L’eco nello spazio, del 1964)
- usare ridondanza nei meccanismi
- adottare la costruzione come un metodo di esplorazione e conoscenza
- esaltare la superficie (anche qui c’è un eco di Shinoara, quando scrisse che “nell’architettura giapponese la concezione delle superfici è sicuramente forte (..) ciò significa che noi giapponesi progettiamo l’architettura a partire da una o due superfici, ed è a partire da queste che progettiamo l’intero spazio.”
- accompagnare la luce
- raccogliere tracce – si tratta di tutte le tracce possibili, da quelle che ancora non hanno trovato materia (come i numerosi disegni scarpiani), o che mai la troveranno (come gli oggetti sonori della musica sperimentale e concreta), ma anche delle tracce formatesi nella nostra coscienza.