In questo post vi racconteremo quali siano state le principali intenzioni programmatiche che hanno indirizzato il progetto esecutivo della High Line. Approfondiremo quali siano state le scelte tecniche e costruttive intraprese per realizzare un ecosistema ibrido capace di operare con una manutenzione minima (ma altamente specializzata). Mostreremo come si sia raggiunta un’unità compositiva generale, nonostante la piattaforma si estenda per quasi 2,5 chilometri. Andremo anche ad approfondire le strategie compositive adottate da Piet Oudolf per la piantumazione, grazie ad una conoscenza costruita nel corso di decenni di osservazione diretta e paziente degli ecosistemi vegetali. L’esatta compenetrazione tra questi livelli progettuali permette alla High Line di essere considerato uno dei più interessanti e completi capolavori del XXI secolo nel campo, ancora acerbo, della rigenerazione urbana.
La sua esemplarità si estende oltre al risultato estetico, che, almeno all’inizio, aveva molto da condividere con altri progetti realizzati al di fuori del suolo americano. Anche se la High Line mostra un design intenzionalmente raffinatissimo e dedicato, l’idea di realizzare un parco nel cielo, su di una piattaforma a nove metri da terra, non è infatti originale. Come abbiamo potuto vedere fino a qui, sembra esserci molta più originalità nelle fasi di ‘collettivizzazione’ del processo di realizzazione, strategie e finalità che agli inizi del XXI secolo non erano ancora annoverate nel campo semantico, oggi mainstream, della ‘rigenerazione urbana’. Ci riferiamo naturalmente all’interazione con le comunità locali, alle forme di pubblicità, alle strategie usate per raccogliere i fondi pubblici e privati necessari. Infine, in merito all’originalità del concept, per ammissione dei due co-fondatori di Friends of the High Line, il progetto iniziale intendeva riproporre a Manhattan proprio il design della Promenade Plantée di Parigi, migliorandolo.

“La mia buona amica Joyce Pierpoline viveva a Parigi. Mi disse: ‘sai, qui c’è qualcosa di simile alla High Line’. Avevo già pensato di andare a Parigi per il giorno del Ringraziamento: mio zio e mia nonna vivono lì. Così andai a Parigi e visitai la Promenade Plantée, vicino al teatro della Bastiglia. Era stata completata pochi anni prima. Era su un tipo diverso di struttura sopraelevata – più vecchia, fatta di archi in mattoni invece che di acciaio. Salire sui gradini e fermarmi nel parco fu un’esperienza fantastica. Lo avevano fatto, avevano costruito delle scale, e adesso la gente poteva salirle e usare questo parco sopraelevato. Era divenuto parte del vicinato. E così non era un’idea davvero folle. Era accaduto a Parigi, e poteva accadere anche a New York City.” (Joshua David)

Ho chiesto agli amici e colleghi Alice Braggion e Alessandro Carabini, di abacO – collaborative design studio, con sede a Parigi, di inviarci alcune foto della Promenade, per capire meglio quanto possa essere stata di ispirazione a Joshua David e a Robert Hammond. La Promenade Plantée è stata costruita tra il 1988 e il 1993, anch’essa su di un vecchio tracciato ferroviario dismesso, come parte di un progetto più ampio avviato nel 1986, denominato ZAC Reuilly (dove l’acronimo ZAC sta per Zone d’Aménagement Concerté).
Il progetto della Promenade è opera del paesaggista Jacques Vergely e dell’architetto Philippe Mathieux. La promozione di un piano ZAC è completamente pubblica, per cui il processo di realizzazione della Promenade è stato assai diverso da quello che vi abbiamo descritto per la High Line, anche se entrambi i parchi appartengono alla medesima tipologia.

Tuttavia la Promenade Plantée non è stato l’unico modello a cui gli Amici della High Line si sono dichiaratamente ispirati. Nell’embrionale Reclaiming the High Line troviamo infatti altri modelli, locali e internazionali. Il programma funzionale iniziale immaginato per la High Line era molto ambizioso, poiché cercava di riunire sopra e sotto la piattaforma molte funzioni di vicinato, dal mercato informale (come i greenmarkets che occupano periodicamente i parchi, i parcheggi e strade chiuse a Manhattan) alle piccole attività di artigianato (soprattutto legate alla trasformazione del cibo, come il Chelsea Market).
Tra i modelli internazionali di spazio pubblico (oltre alla Promenade parigina) troviamo elencati: le rive della Senna (con i tradizionali venditori ambulanti di libri), il Ponte Vecchio di Firenze e il Ponte di Rialto, con le piccole botteghe arroccate ai lati della campata, ma anche le ampie gallerie vetrate del XIX secolo, come le Galéries St. Hubert a Bruxelles, la Galleria Vittorio Emanuele II a Milano e la Galleria Umberto I a Napoli.
IL PROGRAMMA FUNZIONALE INIZIALE
E’ indubbio che il libro Reclaiming the High Line fosse un testo sostanzialmente promozionale, teso a raccogliere in un unico testo il materiale storico sull’infrastruttura del West Side e a dimostrare che il progetto per la High Line non riguardasse solamente la realizzazione di un nuovo parco per Manhattan, ma che potesse spingersi oltre: quella infrastruttura dismessa avrebbe potuto letteralmente riempirsi di funzioni indispensabili per la comunità del distretto. Inoltre gran parte dei lotti attraversati dalla High Line è di proprietà privata, per cui il libro doveva infine dimostrare che il potenziale interesse pubblico fosse prevalente.
Tra le raccomandazioni per un ‘riuso rispettoso’ della High Line troviamo dunque le seguenti linee guida, che cercano la ‘quadratura del cerchio’ tra interessi potenziali, latenti e reali:
- Pianificare una comunità più forte attraverso lo spazio aperto
- Tutelare la High Line attraverso un adeguato processo di pianificazione
- Necessità della comunità:
- realizzare il massimo dello spazio aperto e degli accessi pubblici sicuri
- rispettare il carattere del vicinato
- mantenere il massimo di luce, aria e vedute
- creare residenze a prezzi accessibili
- sostenere le attività manifatturiere e artistiche esistenti
- realizzare uno spazio sicuro
- Necessità dei proprietari e delle attività commerciali:
- avere l’opportunità di sviluppare e commercializzare liberamente le proprietà
- ottenere nuove opportunità dallo zoning, per permettere nuovi usi dove appropriato
- ottenere il massimo di traffico pedonale (di fronte ai negozi)
- realizzare uno spazio sicuro
- Necessità della Città e dello Stato:
- flessibilità nella rifunzionalizzazione dell’area Rail Yards sulla 30ma Strada, fino ad ottenerne l’uso migliore e più proficuo
- ottenere spazi ad ufficio, residenze e spazi commerciali che generino il massimo di tasse
- parcheggi per automobili e autobus
- alternative nei trasporti per mitigare traffico e inquinamento dell’aria
- ottenere la partecipazione del settore privato nell’assicurare fondi per la realizzazione del parco
- ottenere la partecipazione del settore pubblico nel finanziamento e nell’organizzazione delle attività già esistenti
COM’ERA LA HIGH LINE PRIMA DELL’INIZIO DEI LAVORI
Ecco i principali dati dimensionali, come riportati in Reclaiming the High Line:
- superficie totale: 296.000 piedi quadrati, corrispondenti a 27.500 mq.
- colonne a sostegno della piattaforma sopraelevata: 475
- edifici attraversati dalla piattaforma: 2
- edifici coperti dalla piattaforma: 9
- edifici affiancati dalla piattaforma: 9
- lotti pubblici attraversati: 2
- lotti privati attraversati: 31
- strade attraversate dalla piattaforma: 25
- larghezza massima: 88 piedi, corrispondenti a 26,8 m.
- larghezza minima: 30 piedi, corrispondenti a 9 m.
- servitù di passaggio della ferrovia: 20 piedi (6 m) al di sopra della linea ferrata
- capacità di carico: 4 treni completamente carichi
- altezza: da 0 a 29 piedi (9 m) sopra al livello stradale
- materiali usati: struttura in acciaio, soletta di cemento armato, massicciata di ghiaia e rotaie
Per completare questo elenco di elementi strutturali dobbiamo poi aggiungere anche quel sottile sostrato di detriti che, in quasi trent’anni di disuso (dal 1980 al 2009), aveva permesso ad una folta vegetazione di piante pioniere (fotografate con perizia da Joel Sternfeld e quasi tutte riproposte poi nella piantumazione del parco) di indicare la futura destinazione d’uso della piattaforma.
“Mano a mano che l’impresa scavava, ti rendevi conto di quanto fosse fragile la vita delle piante. Si trattava di uno strato sottile, profondo solo pochi pollici, con radici nella massicciata di ghiaia. Mi impressionò il fatto che un paesaggio così lussureggiante potesse crescere virtualmente senza alcun suolo.”
“Le piante erano così tenaci. C’erano zone dove dovevamo interrompere le lavorazioni per qualche ragione, e alcune delle piante cominciavano immediatamente a colonizzare nuovamente l’area, spuntando dalle montagne di ghiaino rimosso di bulldozer” (Robert Hammond)
Abbiamo già visto che la ‘vecchia’ High Line era considerata dai residenti come un lungo trespolo per piccioni, con grossi problemi di tenuta alla pioggia e dipinto con vecchie vernici al piombo, ormai fuori legge. Solo Joshua David, Robert Hammond e Joel Sternfeld (e pochi altri con loro) ne apprezzavano la vegetazione selvaggia di piante pioniere che regnava incontrastata sulla vecchia piattaforma. Il progetto esecutivo avrebbe quindi dovuto iniziare dal risolvere i problemi strutturali esistenti, riuscendo poi a riproporre quel medesimo paesaggio selvaggio, rendendolo al contempo accessibile al pubblico.
A complicare le fasi esecutive c’era poi la presenza del tratto ferroviario esistente, che, come abbiamo visto, andava mantenuto per ragioni amministrative, essendo una condizione essenziale per l’applicazione del railbanking. Forse, come annota Henrique Pessoa Alves nel libro La High Line di New York (Mimesis Edizioni 2012), il mantenimento del tratto ferroviario è davvero la principale differenza tra la Promenade Plantée e la High Line, ma le ragioni non sono certamente quelle poetiche invocate da Pessoa Alves quando scrive:
“Formalmente il progetto della High Line ha cercato di riproporre accuratamente i tratti della ferrovia, preservando i binari e le traversine di legno simulando l’idea che si trattasse della sovrapposizione del disegno di un parco alla vecchia ferrovia, conservata com’era al momento della sua dismissione. Di questa simulazione fa parte anche la vegetazione cresciuta negli anni d’abbandono. Con questo rifacimento, oltre al mantenimento della ‘memoria’ della ferrovia, rimane esplicita la volontà di riproporre un’atmosfera romantica, secondo una visione della natura che si riappropria dell’artificio, anche se tecnicamente negata dalla necessità di bonificare i sostrati, di risanare la struttura metallica e di provvedere a tutto il sistema dei moderni e necessari accorgimenti tecnico-funzionali e di sicurezza per il pubblico. ”. (p. 263).
In realtà, come abbiamo già chiarito nel post più di un singolo parco, fu il processo di railbanking a imporre il mantenimento del tratto ferroviario, che venne poi inserito con maestria nel design finale. Dunque senza la conservazione della vecchia ferrovia, quasi per anastilosi, il parco non avrebbe potuto essere realizzato. E’ importante, a nostro avviso, sottolineare fin d’ora che le ragioni del sofisticato design proposto da Diller Scofidio+Renfro, assieme a James Corner e Piet Oudolf sono state quindi squisitamente pratiche, per quanto effettivamente realizzare su misura e con un elevato gusto per il dettaglio
LA SCELTA DEL TEAM DI PROGETTAZIONE

Dopo il primo entusiasmante concorso di idee (del 2003) la situazione era, in estrema sintesi, la seguente: la battaglia legale per tenere in piedi la piattaforma non era ancora vinta, tuttavia gli Amici della High Line avevano circa $ 15 milioni per iniziare la costruzione del nuovo parco. Durante la mostra alla Central Station erano state distribuite delle cartoline per permettere al pubblico di lasciare commenti o indicazioni all’associazione. Una di queste, che potete ancora vedere riprodotta nel libro High Line – The Inside Story, recitava: “la High Line dovrebbe essere preservata, vergine, come un’area selvaggia. Non ho alcun dubbio che la rovinerete. Così va la vita.”
“Lo attaccai sulla mia scrivania. Metteva in luce la mia più grande paura: amavo come era lassù, così com’era. Ero preoccupato che qualsiasi cosa avremmo progettato, quella magia si sarebbe persa. Fino al giorno di apertura rimasi segretamente spaventato dal timore che avremmo rovinato tutto” (Robert Hammond)
La sfida implicita contenuta in quella piccola cartolina, scritta frettolosamente con un pennarello rosso, è forse stata la ragione che ha determinato la scelta del team di progetto, all’interno di un folto gruppo di 51 partecipanti alla selezione, poi ridotti fortunatamente a 7 in base ai curricula inviati. Il leader di ogni gruppo doveva essere un architetto del paesaggio, e ogni team avrebbe dovuto dimostrare una spiccata interdisciplinarietà. La scelta non fu facile, come vedremo.
Il gruppo ristretto dei fondatori di FHL (Joshua David e Robert Hammond, con Amanda Burden) decise di intervistare personalmente i sette team, scoprendo che il tema di progetto era talmente specifico da necessitare di un team particolarmente dotato (di sensibilità e di raffinatezza).
“Nutrivamo grandi speranze per un team guidato da Peter Latz, che aveva progettato un famoso parco in un complesso industriale a Duisburg-Nord, in Germania. Invece di demolire le vecchie cisterne di gas, il progetto di Latz le riutilizzava come elementi del parco. Latz disse che la sfida a New York era data dalla scarsa larghezza della High Line, che c’era davvero uno spazio ridotto per realizzare il percorso e la piantumazione. La soluzione che propose era di costruire un traliccio che avrebbe costituito un’arcata sopra l’intera High Line. Tutta la piattaforma sarebbe stata pavimentata tranne che per le aiuole alle estremità, dove sarebbero state piantate delle vigne che, crescendo lungo il traliccio, avrebbero creato una specie di tunnel di vegetazione.
Amanda disse: ‘E’ interessante, ma ci piacciono le vedute dalla High Line, le prospettive che ti dà sulla città, e questa tua proposta ti esclude dal progetto.” (Joshua David).
Anche l’incontro con il team che includeva Zaha Hadid (che aveva appena vinto il Pritzker Prize, di fatto il ‘nobel’ per l’architettura) non fu dei migliori. Qualche tempo prima Robert aveva incontrato il critico di architettura del Times, Herbert Muchamp, per un tour sulla piattaforma, accompagnati per la CSX da Laurie Izes. Per tutto il tempo Muchamp aveva fumato e la Izes aveva continuato a dirgli che era proibito fumare lassù. Il critico aveva caldeggiato la scelta di Zaha Hadid per il progetto esecutivo, ma la proposta che l’architetto iracheno aveva inviato a FHL, straordinariamente, non conteneva alberi, e questo lasciava perplessi Robert, Joshua e Amanda.
“Il team di Zaha aveva fatto in modo di creare qualcosa di completamente nuovo. Si era affiancata all’architetto del paesaggio Diana Balmori e al capo della Skidmore, Owings e Merril, Marilyn Jordan Taylor, che era già stata nella nostra giuria per il concorso di idee. Era una combinazione interessante, SOM e Zaha Hadid, il pratico con il selvaggio.
Nell’approccio di Zaha c’erano pochissime piante e nessun albero. C’era questo fluente paesaggio bianco che sembrava che fosse stato fuso direttamente in plastica. Le chiesi: ‘Non ti piacciono gli alberi?’. Lei rispose: ‘Gli alberi sono cose che li architetti mettono nel progetto quando non sanno cosa fare con uno spazio’. Ho apprezzato il fatto che non stesse cercando di prenderci in giro. Ma questo mi fece anche capire che lei non era quella giusta”. (Robert Hammond)
Al contrario il team Field Operations/Diller Scofidio+Renfro aveva convinto gli Amici della High Line fin dalla prima presentazione, probabilmente proprio perché la loro sensibilità superava il loro ego di designer. Non presentarono una proposta da realizzare sulla piattaforma, ma un set di soluzioni progettuali per realizzare il potenziale già presente su di essa.
“Descrissero la High Line come una rovina, un oggetto ritrovato. Liz Diller usò la parola illecito: dovevi strisciare sotto una recinzione, ed entravi in un’area proibita, segreta, che aveva un’aura di sesso consumato e droghe. Questo team amava il lato oscuro e misterioso della High Line, verso il quale anch’io ero attirato”. (Joshua David)
“Ric Scofidio disse ‘il mio lavoro come architetto è di salvare la High Line dall’architettura’. Migliaia di architetti avevano guardato la High Line come un esercizio per costruire cose. Ciò nonostante il suo team si era concentrato nel rimuovere cose e nell’esporre la struttura, invece di aggiungere cose.” (Robert Hammond)
L’approccio concettuale del team Field Operations/Diller Scofidio+Renfro cominciò a conquistare molti dell’associazione e dei loro partner, anche nella pubblica amministrazione. Il rischio di mettere in cantiere un progetto troppo innovativo e (quasi certamente) costoso rendeva nervoso Joshua, mentre l’esiguo numero di progetti realizzati da Diller Scofidio+Renfro preoccupava Robert. Alla fine ci pensò Vishaan Chakrabarti, braccio destro di Amanda Burden all’urbanistica di New York City, a convincere definitivamente Robert.
“Andai a chiedere consiglio a Vishaan Chakrabarti. Disse: ‘vuoi qualcosa che sei certo che sarà buono, o vuoi correre il rischio di arrivare a qualcosa di grandioso?’.
Quando la mise giù in questo modo, era fin troppo facile rispondere alla domanda”. (Robert Hammond)
L’ELABORAZIONE DEL PROGETTO E I SUOI ELEMENTI COMPOSITIVI: keep it simple, keep it wild, keep it quiet, keep it slow
Il progetto della High Line è il risultato di molti input sapientemente armonizzati dal team di progettazione. Il suo aspetto più iconico sono le transizioni tra le aree piantumate e quelle pavimentate, rese possibili dai cinque tipi di conci prefabbricati in calcestruzzo, ideati dallo studio Diller Scofidio + Renfro sotto il neologismo di ‘agri-tettura’. Quei conci (planks) rastremati ad una delle estremità permettono di comporre transizioni a percentuale di copertura variabile tra i due estremi (100% verde e 100% pavimentazione in cemento). Ecco come li descrivono i designer newyorkesi che li hanno ideati:

“La nozione di ‘agri-tettura’ si fonda su una strategia complessiva: l’invenzione di un nuovo sistema di pavimentazione e piantumazione che permette di variare la percentuale di superficie dura e morbida, che va da aree di utilizzo intenso (100% dure), a biotipi ricchi di vegetazione (100% soffici), con una varietà di gradazioni esperienziali nel mezzo. La superficie è costituita da singole assi prefabbricate di cemento armato, con giunti aperti, per incoraggiare la crescita spontanea, come quella delle erbe selvatiche, attraverso le fessure della pavimentazione.” (Diller Scofidio+Renfro – in La High Line di New York)
Da queste variazioni di intensità emerge l’abaco delle ‘situazioni’ proposte dal team di progetto lungo il parco: pit (il pozzo), plains (i piani erbosi), bridge (il ponte tra la vegetazione), mound (il tumulo di vegetazione), ramp (la rampa di accesso), per finire con flyover (la passerella al di sopra della vegetazione). Ciascuna di queste situazioni è caratterizzata da una specifica quantità di vegetazione e, naturalmente, da una specifica accessibilità al pubblico, solitamente inversa (dunque ad una maggiore vegetazione corrisponde una minore accessibilità al pubblico, e viceversa). Anche lo spazio pubblico della High Line è dunque caratterizzato da una pavimentazione unitaria, come accade in altri luoghi aperti al pubblico. Tuttavia essa è modulata e porosa, anti-monumentale, in grado di seguire all’occorrenza l’andamento curvilineo della vecchia piattaforma ferroviaria; inoltre essa è flottante e a giunto aperto (dunque i conci sono semplicemente accostati tra loro). Questo semplice accorgimento permette all’acqua piovana di filtrare verso il fondo impermeabile e alla vegetazione di spuntare tra i conci.
Nel complesso il design realizzato nella High Line adotta soluzioni semplici, ma permutate tra loro per generare complessità, con alcuni luoghi nodali (che a breve vedremo nel dettaglio) realizzati per la sosta e l’incontro (per ammirare il paesaggio, per oziare a nove metri da terra, per assistere alle performance artistiche sulla High Line, etc.). Strategicamente ciascuno di questi luoghi che caratterizzano il percorso del parco è stato oggetto di specifiche campagne di raccolta fondi, e alcune di essi recano i nomi dei loro finanziatori privati, come il Fyover o il Diller – von Furstenberg Sundeck.
Anche lo sviluppo del design architettonico fu oggetto di riunioni con le comunità (community input), anche se all’inizio Diller Scofidio+Renfro e James Corner non ne volevano sapere, per timore (secondo Hammond) che la gente si opponesse alle loro scelte compositive e formali. Alla fine le community input saranno circa una ventina.
“Organizzammo una riunione con la comunità sul progetto al Cedar Lake, uno spazio per il ballo sulla 26ma ovest, più o meno nello stesso momento in cui iniziò la costruzione del parco. Era la nostra terza – ne avevamo fatta una subito dopo il concorso di idee (2003) e una dopo aver scelto il team di progettazione (alla fine dell’estate 2004). Riuscimmo nell’intento di portare regolarmente il team di progettazione all’interno della comunità. Ai progettisti spesso non piace fare questi incontri all’inizio del processo. Non vogliono che la comunità rifiuti le loro idee prima che siano riusciti a svilupparle appieno e a presentarle nel modo migliore, con rendering e plastici. Ma non devi fare tutto quello che la comunità suggerisce. Se poi torni e dici ‘abbiamo ascoltato quello che avete detto, ma andremo in un’altra direzione e vi spieghiamo il perché’ spesso apprezzano il tuo ragionamento e il fatto che li hai ascoltati. La gente disse che non voleva persone in bicicletta lassù, e che non voleva un sacco di attività commerciali”. (Robert Hammond)
Il parco della High Line era fisicamente costretto ad essere un percorso lineare, sostanzialmente privo di luoghi adatti al gioco libero (il che ha limitato drasticamente il suo apprezzamento da parte degli afroamericani residenti nel distretto, come vedremo nell’ultimo post). Tuttavia James Corner, attraverso il progetto dei paesaggi, è riuscito a modificare l’esperienza del tempo da parte dei visitatori della High Line, trasformando un percorso in una successione di luoghi capaci di far rallentare o fermare i visitatori, a godere degli inaspettati scorci sul West Side e sul fiume Hudson. Ecco come James Corner descrive la poetica del progetto:
“La coreografia creata all’intreccio di pavimentazione, di piantumazioni e dal movimento in sequenza è finalizzata a rallentare le cose e a reinquadrare la città da punti di vista insoliti. L’impressione è di una lenta durata, di trovarsi in un altro posto, dove il tempo sembra meno pressante.
Una sequenza episodica e variata di spazi pubblici, viste, incontri e paesaggi è minuziosamente coreografata lungo una sola e specificatamente definita direttrice – una promenade sociale con tale diversità e mixité, che le persone inevitabilmente diventano parte intrinseca dell’esperienza.
Passa il tempo, cambiano e maturano le cose e la vita nella città si è arricchita, grazie a questa reinterpretazione creativa di una vecchia infrastruttura, un tempo destinata alla demolizione e alla rimozione. Invece di farla scomparire, il progetto ne garantisce la riapparizione, il rinnovamento, il riuso creativo.” (James Corner – in La High Line di New York)

Per nostra esperienza diretta, il tratto che attraversa la 10ma avenue è probabilmente il luogo in cui il tempo viene maggiormente rallentato sulla High Line, ed è anche uno dei tratti in cui lo spazio permette attività collettive. Il Sundeck, l’attraversamento del Chelsea Market e la Piazza sulla 10ma avenue costituiscono quasi un luogo unitario in cui è possibile sostare, prendere un brewed coffee e ammirare la vetrata-installazione del Chelsea Market Passage, The River That Flows Both Ways, dell’artista Spencer Finch, la quale riproduce le molte tonalità di colore di un singolo punto del fiume Hudson.
Nonostante il design sperimentale che si stava sviluppando per la rigenerazione della vecchia piattaforma, dal punto di vista normativo il parco della High Line era sostanzialmente visto dal DOT (il Dipartimento dei Trasporti di New York City) come un lungo ponte di attraversamento pedonale, per cui ad un certo punto richiese delle recinzioni alte circa 2,5 metri (pari a otto piedi) lungo l’intero perimetro della piattaforma. La richiesta era davvero inaccettabile, soprattutto perché avrebbe impedito di godere di quei diritti di visuale che, paradossalmente, il nuovo masterplan per il distretto della High Line già includeva tra le proprie norme tecniche. Di fatto le recinzioni servivano per evitare che, sotto i ponti più trafficati, qualche male intenzionato potesse gettare oggetti sulle automobili in transito. Era successo qualche tempo prima, con un gruppetto di ragazzi che avevano trovato divertente gettare un tacchino congelato da un ponte (per questo alcuni chiamavano scherzosamente la norma del DOT “la Regola del Tacchino Congelato”), ma sotto la High Line passava un traffico molto meno intenso, per cui il pericolo di interferenze era assai inferiore.
“Così Peter Mullan fece un rilievo dei ponti e delle passerelle pedonali sopraelevate di New York City in cui non erano mai state installate le recinzioni alte otto piedi – posti come la passeggiata a Brooklyn Heights e la passerella pedonale sopra il Ponte di Brooklyn. Verificò anche i livelli di traffico delle strade che incrociano al di sotto della High Line” (Joshua David)
“Sul Northern Spur, che attraversa la Decima Avenue, il team raccomandò la realizzazione di una riserva paesaggistica, inaccessibile ai visitatori, così non sarebbe stato necessario recintare quella parte di rotaie Art Deco. Nel punto che chiamavano la Piazza della Decima Avenue (Tenth Avenue Square), che si affaccia proprio sopra la strada, con un flusso di traffico al di sotto, il team propose di portare i visitatori al di sotto della struttura, così che la stessa High Line avrebbe formato la propria barriera di otto piedi. E’ solo un esempio di come i limiti normativi sul progetto abbiano portato a realizzare alcuni dei suoi luoghi più iconici”. (Robert Hammond)
Non dobbiamo poi tralasciare la scelta del colore della struttura portante, che era per la maggior parte ruggine o coperta, come abbiamo detto, da vecchia vernice a piombo tossica. Naturalmente anche questo dettaglio era di fondamentale importanza, poiché avrebbe determinato l’impatto della nuova High Line sul vicinato.
“Rimuovere in sicurezza la vernice a piombo dalla High Line e ridipingerla fu la parte più costosa del contratto di costruzione. La struttura era stata dipinta solamente due volte dagli anni Trenta, una volta in color marrone rossastro e una volta in marrone scuro, molto più vicino al nero. Era rimasta solo una piccola parte della pittura originale. Il colore a cui la maggior parte delle persone associava la High Line era il color ruggine. Idealmente il colore con cui l’avremmo dipinta sarebbe dovuto apparire come ci fosse sempre stato, come se nulla fosse cambiato. (…) Il team di progetto studiò un nero modificato, e trovò un colore su cui tutti noi fummo d’accordo: il ‘greenblack’. Questo è esattamente come suona: un nero con giusto una punta di verde che quasi non lo vedi. Lo fece Sherwin-Williams. Chiunque può acquistarlo. Di recente sono andato in ferramenta ed ho comprato un po’ di quella pittura per la mia cucina. Il numero da chiedere è il codice SW6994”. (Robert Hammond)

Altro elemento tipico della High Line sono le panchine che emergono dalla pavimentazione, sottolineando il fatto che essa è la chiave di tutto il design del parco sopraelevato. A quanto riportato da Joshua e Robert, le panchine presenti sulla High Line sono superiori in numero a quelle installate sulla Promenade Plantée, per evitare che, come accade a Parigi, chi passeggia lungo la High Line possa lamentarsi perché non si trovano abbastanza sedute. Tuttavia il team di progetto non intendeva sovraccaricare la piattaforma con elementi di arredo urbano, per cui ideò le panchine ‘sbucciate’ (peel-up benches). Inizialmente dovevano essere completamente in calcestruzzo e senza il supporto in acciaio sotto lo sbalzo, ma erano praticamente irrealizzabili (e poco confortevoli). I progettisti accettarono allora di inserire del legno (nel tratto orizzontale) e un supporto (praticamente invisibile, anche se meno coerente con l’idea della panchina-buccia). Anche nel caso delle panchine le ferree norme dei dipartimenti municipali newyorkesi imposero una trattativa specifica.
“Sulla larghezza delle panchine non potevamo accettare compromessi. Il regolamento cittadino per le panchine negli spazi pubblici impone una profondità della seduta pari a 45 centimetri (18 piedi), ma le sedute delle nostre panchine era di soli 30 cm. Tentammo di ingrandire le panchine, ma non sembravano giuste. Alla fine Amanda Burden venne su e provò una delle panchine più strette. E le piacquero. Vide anche quanto sembravano goffe quelle che avevamo imbottito per farle più profonde, e alla fine ci concesse una deroga.” (Robert Hammond)
Una volta risolte le questioni amministrative dettate dai regolamenti urbani si impose un’altra questione, la più importante di tutte, a nostro avviso: l’accessibilità della piattaforma. Il fatto che essa fosse sopraelevata rendeva equipollenti due atteggiamenti progettuali contrapposti: se la piattaforma fosse stata molto accessibile forse sarebbe venuta meno la sua unicità (e, secondo Amanda Burden, sarebbe diventata come una qualsiasi altra strada); dall’altra parte se fosse stata poco accessibile (o con accessi esclusivi) sarebbe andata contro la tradizionale apertura dei parchi newyorkesi, nei quali tutti possono entrare (a patto di non avere una sigaretta accesa).

“L’arrivo sulla scena del Caledonia ci forzò la mano. Il Caledonia, che stava sorgendo sulla diciassettesima ovest, era il primo progetto residenziale ad essere costruito vicino alla High Line grazie a quanto concesso dal masterplan di West Chelsea. I costruttori, le Related Companies, ci chiesero un collegamento col parco. (…) Non ci sarebbe stato nessun accesso privato da edifici privati sulla High Line. Se eri un costruttore che voleva collegare un edificio alla High Line, dovevi prima di tutto costruire un accesso verticale completo e aperto al pubblico, che includesse sia le scale che un ascensore, che avrebbe permesso al pubblico di accedere alla High Line dal marciapiede. (…) Dovevi anche pagare una tassa annuale alla Città per avere diritto a questa connessione. La somma sarebbe finita in un fondo speciale, controllato dalla Città, per sostenere la High Line.
Il Caledonia aveva già progettato una scala e un ascensore pubblici come parte dell’edificio, così era relativamente facile per loro aggiungere una porta che collegasse l’edificio con le scale pubbliche. Ma la porta non venne mai aperta. Il Caledonia e la Città non raggiunsero mai un accordo sulla tassa di accesso.
Col passare del tempo, sembra che questi collegamenti saranno sporadici, o addirittura non ci saranno. Dal punto di vista dei costruttori, la ragioni di sicurezza sono complesse: un collegamento rappresenta un ulteriore punto di accesso da gestire. Dal nostro punto di vista, invece, abbiamo la fortuna di avere molti più visitatori di quanti ce ne aspettassimo, e così la questione delle connessioni ha perso di rilevanza.” (Joshua David)
Manca ancora un ultimo layer per completare questa nostra descrizione degli elementi che compongono il progetto della High Line: la vegetazione. A Piet Oudolf venne affidato il compito più difficile: ricostruire in vitro la vegetazione selvaggia preesistente, facendo in modo che resistesse ai caldi estivi e alle gelate invernali della costa atlantica, con l’aggravante ambientale di essere sospesa da terra. Data la specificità della questione abbiamo preferito dedicare al lavoro di Oudolf un intero paragrafo.
LA REALIZZAZIONE DI UN SOGNO LUNGO PIU’ DI SEI ANNI
Nel febbraio 2006 iniziò la cantierizzazione dell’opera. Anche se la cerimonia di posa della prima pietra, con il sindaco Bloomberg, avvenne solo in aprile (per cui l’ufficio stampa del sindaco ebbe non poco da ridire), gli Amici della High Line videro finalmente il loro improbabile progetto prendere finalmente forma. Per prima cosa occorreva rimuovere ogni cosa da lassù: le rotaie, le traversine, le piante e la massicciata.
“Per prima cosa l’impresa segnò con numeri gialli le rotaie d’acciaio, seguendo un rilievo del sito, così da poterle poi rimettere nella posizione originale. Potete ancora vedere il numero su qualcuna delle rotaie del parco.” (Robert Hammond)
“Per un istante tutto era ridotto a un mucchio di fango e ghiaia e letame, e poi arrivarono al solo, puro cemento. Divenne una soletta ripulita, il che era in qualche modo liberatorio. Ti liberava dal pensare alla High Line solamente come una cosa da preservare, e ti permetteva di concentrarti su quello che avresti potuto realizzare lì sopra.” (Joshua David)
In effetti la struttura portante della piattaforma è mista: si tratta di portali in acciaio, con un secondo ordine di travi (più fitte e incrociate sui portali), sulle quali è stata gettata una soletta in cemento armato. Su quella soletta posava la vecchia impermeabilizzazione, come fosse un tetto su cui erano state poi messe in opera le rotaie. Purtroppo, come abbiamo visto, l’impermeabilizzazione, nei decenni, aveva ceduto. Per cui, oltre al rifacimento della pittura al piombo, era necessario arrivare alla soletta per rifare tutta l’impermeabilizzazione, per decine di migliaia di metri quadrati. A quanto riportato nel libro La High Line di New York (di Zambelli e Pessoa) la soletta di cemento non era poi così danneggiata, per cui fu possibile intervenire con ‘rattoppi in malta epossidica’. Diversa sorte, invece, per la struttura in acciaio. “Lo studio Robert Silman Associates (RSA) è responsabile della conservazione e del restauro della struttura esistente (…). Laddove i danni risultavano più significativi, sono state progettate piastre di rinforzo per la struttura di acciaio, i rivetti sono stati rimpiazzati e le connessioni riparate.” (da La High Line di New York, di Zambelli e Pessoa)
Per il rifacimento dell’impermeabilizzazione è probabile che sia stato utilizzato un manto sintetico armato, la cui applicazione tipica è nei tetti giardino, poiché resiste molto bene alla punzonatura e all’azione degli apparati radicali. Dalle foto di cantiere (che potete vedere sul sito di thehighline.org) è possibile vedere come i teli dell’impermeabilizzazione siano stati stesi e zavorrati, per poi iniziare la posa delle rotaie e delle traversine (non quelle originali, perché purtroppo sature di agenti inquinanti) su rialzi direttamente poggiati sul manto sintetico. In questo modo, nello spazio venutosi a creare tra l’impermeabilizzazione e le rotaie, è stato possibile stendere sia gli impianti elettrici (per le luci e il sistema di allarme e sensoristica) che l’impianto per l’irrigazione (utilizzato i primi tempi, per permettere lo sviluppo degli apparati radicali nella prima torrida estate newyorkese).
IL CONTRIBUTO DI PIET OUDOLF
“Ero preoccupato più di tutto dalle piantumazioni. Anche nelle migliori condizioni, non sapevamo quanto qualcosa avrebbe potuto crescere sulla High Line. Avrebbe davvero funzionato il sistema di drenaggio? Se non fosse stato così le radici sarebbero tutte marcite. La High Line è in sostanza un ponte, con l’aria che passa sopra e sotto, così si gela velocemente in inverno e si cucina in estate. Ero convinto che con l’andare su e giù delle temperature, ogni cosa sarebbe morta.
Così sottoposi la questione a Piet. Piet, un noto designer di piantumazioni olandese, aveva selezionato e posizionato tutte le piante come partner di James Corner. Disse che non dovevo preoccuparmi, che tutto sarebbe andato bene. Appena me lo disse i bulbi primaverili cominciarono a spuntare, e le piante fiorire, alcune anche a Marzo, quando c’era ancora la neve a terra. Non c’era nessuno sulla High Line, fatta eccezione per il nostro staff e per i costruttori. Solo il nostro fortunato gruppetto riuscì a godere della vista dei fiori dei quarantamila bulbi donati dall’Associazione Bulbi Olandesi (Dutch Bulb Association).” (Robert Hammond)
Piet Oudolf è un uomo di poche parole e molto pragmatico. Come l’altro grande giardiniere, il francese Gilles Clement, ha una casa con un giardino altamente sperimentale. Le piantumazioni del giardino di Oudolf ad Hummelo dimostrano l’abilità compositiva dell’esperto olandese, che si esprime con gruppi vegetali capaci di creare un ecosistema stabile di piante che si limitano reciprocamente nella loro innata pulsione pioniera. Oudolf, dopo decenni di ricerca e osservazioni, riesce ad utilizzare sapienti mix di piante grasse e perenni (capaci di morire e di rinascere ogni anno) nel loro intero ciclo di vita, anche quando, ridotte a sterpi, invece di fiori colorati sorreggono bacelli di semi. Per il maestro olandese anche le piante morte possono rendere emozionante un paesaggio. I giardini di Oudolf vivono e mutano negli anni, sono progettati per farlo.
Per capire un po’ più a fondo il pensiero e la prassi di Piet Oudolf abbiamo letto il suo libro Planting: A New Perspective, del 2013, in cui viene descritto il passaggio da una composizione del giardino basata sull’esplosione dei colori delle piante da fiori nel periodo estivo ad una composizione basata sulle forme e sui volumi di gruppi vegetali sapientemente creati. Anche qui, in perfetta sintonia con le differenti durate temporali ricercate da James Corner, troviamo un pensiero botanico interessato ai mutamenti piuttosto che alla stabilità compositiva. Oudolf, partendo dalle prime sperimentazioni dell’Università di Sheffield, ha dovuto rivoluzionare non solo la propria tecnica compositiva ma anche spingere i vivai a dotarsi di piante perenni e piante grasse.
“L’enfasi sul colore è probabilmente la principale caratteristica del giardino tradizionale del nord-ovest europeo, con suoi cieli grigi e un tempo relativamente fresco. Questo riflette forse il ruolo storico del giardino inglese nell’essere di ispirazione alla progettazione dei giardini in giro per il mondo, nonché del ruolo dell’industria vivaistica olandese nel fornire la maggior parte delle piante che permettono di realizzare giardini ‘all’inglese’ (con l’ulteriore contributo dei giardinieri e dei vivai francesi, belgi e tedeschi). Grazie ad una stagione di crescita piuttosto lunga e una luce tenue, i nord europei hanno l’opportunità di usare i colori nel giardino per interi mesi e di apprezzare grandi dettagli; in più, una temperatura più fresca significa una maggiore durata dei fiori rispetto alle zone climatiche calde” (Noel Kingsbury e Piet Oudolf)
Per uscire dalla tradizione botanico-vivaistica nord europea, che in alcuni casi imponeva una costosa artificializzazione del paesaggio per commisurarlo allo standard compositivo ‘all’inglese’, Oudolf ha iniziato con l’interessarsi alle piante come esseri viventi, misurandone le performance nel tempo e nelle stagioni. I giardini progettati da Oudolf sono quindi specifici per il sito di progetto, anche esteticamente, contrariamente all’uniformità primaverile dei giardini tradizionali.
“il commercio internazionale di piante ha determinato il fatto che la primavera nel giardino è un evento particolarmente simile in giro per il mondo. L’unica cosa che differenzia un luogo dall’altro è la sua durata”. (N.K. e P.O.)
La ricerca dell’olandese non è quindi puramente estetica, poiché intende raggiungere un equilibrio dinamico tra il sito, le piante utilizzate e il nuovo tipo di giardinaggio (con meno addetti ma molto più specializzati) che questo tipo impianto richiede. Con Oudolf il vegetativo e la rigenerazione cominciano poi ad avvicinarsi: le strategie di sopravvivenza delle piante possono essere utilizzate in paesaggi ibridi, con grandi capacità di resilienza e minor utilizzo di risorse.
“Applicare il linguaggio alla natura è raramente semplice. A noi umani piace distinguere le cose in categorie rigide e immediate, cosa che raramente accade in natura. Un concetto chiave nella comprensione della natura è il gradiente per cui il nero ad una estremità diventa impercettibilmente bianco all’altra estremità attraverso infinite variazioni di grigio. La comprensione legata al linguaggio umano, invece, è costretta a decidere dove una categoria finisce e dove l’altra inizia, e così inevitabilmente si perdono molti sottili dettagli.” (N.K. e P.O.)
Come detto Oudolf ha cominciato ad analizzare le performance delle piante secondo il modello CSR sviluppato negli anni ’70 all’Università di Sheffield, ad opera di J. Philip Grime. Si tratta di comprendere come le piante attuino le tre caratteristiche di Competizione, di resistenza allo Stress e di diffusione Rapida (l’acronimo inglese deriva da Competitors, Stress-tolerators, Ruderals). Secondo il modello CSR queste non sono categorie ma tendenze: “la maggior parte delle piante non sono puri competitori o resistenti allo stress o a rapida diffusione; esse combinano gli elementi di tutte e tre le tendenze” (N.K. e P.O.)
L’evoluzione del modello CSR ha portato Oudolf a sviluppare indicatori per impianti vegetativi di lungo periodo, quali: longevità, capacità di diffusione, persistenza in un luogo, capacità di riproduzione attraverso i semi.
“Il design dell’impianto si è spostato, in generale, da un senso di controllo assoluto verso una negoziazione con la natura stessa – per non dire di totale spontaneità, o quantomeno di un’apparente spontaneità”. (N.K. e P.O.)

Il passaggio dall’Ordine allo Spontaneo è un elemento chiave per capire perché Oudolf sia stato il componente determinante, all’interno del team di progetto, per ricreare, sulla piattaforma della High Line, le medesime performance della vegetazione pioniera fotografata da Sternfeld. Spontaneità e resilienza sembrano condividere il medesimo approccio con la complessità, divenendo opposti naturali del monumentale e dell’ordinato. Ecco come Oudolf descrive le caratteristiche di un paesaggio resiliente:
“una grande resilienza deriva da:
- spazio ridotto per impedire alle erbacce di infiltrarsi, e una maggiore competizione per quelle che riescono a stabilirsi nell’impianto
- spazio ridotto per le piantine delle componenti di semina più aggressive
- più competizione per limitare i componenti a diffusione più aggressiva
- riduzione della dimensione delle piante a causa di un competizione più grande, col risultato di una riduzione del tasso di crescita e dunque con una riduzione della necessità di puntelli
- supporto per le specie con steli deboli.
Qualsiasi piantumazione che intenda realizzare la densità di una comunità naturale di piante piuttosto che un giardino tradizionale, avrà bisogno di uno stile di manutenzione che si concentri sull’insieme generale piuttosto che sulla singola pianta e sull’idea di curare un processo in corso d’opera – una gestione estensiva piuttosto di una intensiva.” (N.K. e P.O.)
Questo tipo di gestione, come detto, richiede un nuovo tipo di giardiniere, non più esperto solo della singola pianta, delle sue necessità di luce, temperatura e acqua, ma preparato anche in ecologia, con una specifica “abilità nell’usare la scienza per guidare la propria intuizione nella gestione di piantumazioni complesse” (N.K. e P.O.). Se volessimo fare un parallelo con un (futuro?) esperto in rigenerazione urbana, potremmo dire che si tratterà di un consulente esperto in sistemi complessi e dinamici, capace di tenere in considerazione tutti i fattori di una situazione complessa e la loro evoluzione nel tempo. Purtroppo è più facile gestire la complessità di un sistema vegetale che non quella di un sistema urbano.
Tuttavia la natura, con la sua straordinaria capacità di adattamento e ibridazione, ci sta insegnando molto, a patto che riusciamo a comprendere che la nostra idea di natura, ancora romanticamente intesa come un luogo incontaminato al di là dell’umano, va riconsiderata e aggiornata. Oudolf stesso consiglia la lettura del libro Rambunctious Garden: Saving Nature in a Post-Wild World, di Emma Marris (2011), che tenta di decostruire la fissità della nostra idea di natura come di uno stato originario incontaminato, a favore di un’idea più affine alla realtà di ibridi naturali-artificiali.
“L’originale vegetazione spontanea della High Line di New York era un buon esempio, con il suo mix di piante native e piante esotiche, e il suo suolo magro che limitava la crescita delle specie più vigorose, permettendo così l’espressione di una flora ricca e variegata. Questa diversità di flora è realmente molto tipica degli ambienti post-industriali abbandonati e molto inquinati. I conservazionisti stanno cominciando solo ora a comprendere, e spesso è troppo tardi, quanto questi luoghi possono essere ricchi di biodiversità e di valore. (…) La lezione è che la natura è molto efficacie nel reagire e nel rigenerare, e che dovremmo aver cura di questi esempi e forse prenderli come modelli per il design delle piantumazioni future” (N.K. e P.O.)
LE AREE PRINCIPALI DELLA HIGH LINE (SEZIONI 1 E 2)
Vi riproponiamo quindi, settore per settore, alcune foto realizzate lungo il percorso. Per approfondire ulteriormente i dettagli e le sezioni di progetto vi rimandiamo al testo La High Line di New York, di Zambelli e Pessoa, davvero ricco di disegni tecnici.

Sezione 1:







Sezione 2:







LA HIGH LINE FUNZIONA BENE?
E’ una domanda persistente, che ci accompagna da quando abbiamo iniziato a pubblicare questi post dedicati alla High Line. Le risposte, intuitivamente, dipendono dai punti di vista (interesse pubblico o privato, percezione dei residenti, partecipazione alla programmazione proposta dagli Amici della High Line, collaborazione tra FHL e la Città di New York ecc.) e dagli indici che possiamo prendere in considerazione (denaro raccolto dalle casse dalla città grazie all’aumento di valore degli immobili limitrofi, numero e tipo dei visitatori annuali, performance del mercato immobiliare afferente, numero di progetti realizzati nelle vicinanze, numero di progetti che hanno preso la High Line a modello, ecc.). Alcuni di questi li abbiamo già visti nei post precedenti, ma senza un reale approfondimento specifico.
Abbiamo dunque programmato di concludere questa piccola serie di post con un articolo tematico dedicato alla valutazione di impatto della High Line, sul proprio distretto, sulla città di New York, sulle megalopoli mondiali. E il titolo sarà un progetto inusuale.