Parte prima – una virgola, rompiscatole.
E’ da tempo che volevo scrivere alcune riflessioni sull’architettura digitale, ma purtroppo sono stato impegnato in altre scritture. Quella che mi ha occupato negli ultimi mesi, come coautore, è per la performance teatrale dal titolo Gli Ambasciatori dei Non Umani, che si terrà a Farm Cultural Park il 18 agosto 2023. Poiché nel teatro la scrittura dei testi è solo un materiale grezzo in attesa della messa in scena, posso dire che Gli Ambasciatori è a tutti gli effetti un lavoro collettivo, sviluppato con Saverio Massaro, Stefano Eros Macchi e Marta Bettuolo, e che si avvale degli spunti e delle riflessioni dei partecipanti al nostro primo esperimento alla 17.ma Biennale di Architettura di Venezia, dal titolo Fair Play – nei panni dei non umani.
[Aggiungo questa nota, a seguito della performance del 18 agosto 2023. A Favara, Oriana Persico ha contribuito a dare una connotazione politica – meravigliosa! – all’esibizione tenutasi alla Farm. Presentando una richiesta di asilo per cinque dei loro agenti computazionali – suoi e di Salvatore Iaconesi, Oriana ci ha aiutato a capire la valenza dell’algoritmo culturale di Fair Play. E’ riuscita a raccontarlo compiutamente all’interno della sua nuova rubrica Respiro , all’interno de Il Manifesto. Qui potete leggere il suo contributo].
I Non Umani mi hanno portato su un percorso parallelo a quello dell’Umano, aiutandomi a considerare il Soggetto da altri punti di vista. Penso dunque che alcune delle riflessioni che seguono abbiano un debito nei confronti della scrittura teatrale degli Ambasciatori, e che, tra i Non Umani, le intelligenze artificiali contendano ai sistemi vegetali le luci della ribalta. Così, per me è stato abbastanza naturale, anche dopo più di un anno, tornare a dedicarmi a questo blog e al tema dell’architettura digitale, argomento di discussione che cresce esponenzialmente di giorno in giorno.
Attualmente la rappresentazione della conoscenza (knowledge representation) e la generazione di immagini godono infatti di un vasto palco, dal quale mostrano la potenza visuale delle intelligenze artificiali, ma sembrano sfuggirci alcune questioni legate alla dimensione politica di questa straordinaria produzione visiva. Non si tratta solamente della inevitabile riconfigurazione del lavoro e dei ruoli del creativo umano, che riflettono quanto è già da tempo accaduto all’autore e al soggetto. Una delle ipotesi che sosterrò nelle testo che segue è che sia l’intera estetica ad essere divenuta attività politica, dal momento in cui la nostra produzione culturale è passata da una prevalenza dalle parole ad una presenza preponderante delle immagini. Questo pone inevitabilmente il design in una posizione scomoda, da intermediario, ma anche da diplomatico. E questo sta accadendo nel momento in cui la sua produzione emerge dall’interazione delle IA con i (vecchi) autori umani. Viene da chiedersi, dunque, a chi appartenga il diritto d’autore (incluse le sue responsabilità) e a chi spetti l’onere dell’azione politica correlata.
Data l’ampiezza del discorso che si apre davanti a noi, ho pensato di suddividerlo in cinque parti, inclusa questa che state leggendo, che serve come una soglia di ingresso, al di fuori dei luoghi comuni che pratichiamo quotidianamente, come creativi e come soggetti. Dopo questa introduzione dedicata a una virgola rompiscatole, troverete altre quattro parti:
- il nuovo, il visibile, il politico;
- il Mezzo, i dataset, la fine del tempo;
- per una filosofia del design digitale: continuità o discontinuità?;
- essere umani, essere oggetti.
Pubblicherò queste altre quattro parti con cadenza settimanale.
Per bordare la nostra esplorazione, visto il mio interesse per la costruzione, materiale e concettuale, ho messo sul tavolo di lavoro quattro parole che appartengono oramai al senso comune, sospese tra il soggettivo e il collettivo, tra il materiale e l’immateriale, tra la realtà e la nostra comprensione di essa, tra la costruzione e l’immaginazione, tra il mondo esterno e i nostri mondi concettuali interiori. Ciascuna di esse è in grado di inglobare molte discussioni, un gran numero di concetti, punti di vista anche contraddittori, riuscendo comunque, alla fine, a mostrarsi al senso comune come un concetto unitario. Cercheremo, qui di seguito, di inceppare temporaneamente i loro ingranaggi, per sbirciare al loro interno.
Le quattro parole del titolo hanno anche una peculiare disponibilità ad entrare nei composti, o di comporli tra loro, come in architettura digitale e intelligenza artificiale. Come scatole che contengono scatole, in un ciclo di nidificazione continua, ci sarà difficile arrivare ad aprire la scatola più interna, quella che, alla fine, ha un contenuto che non sia un’altra scatola. Inoltre, presentano una innata capacità di debordare di continuo dai limiti disciplinari e concettuali che vengono loro imposti. Se pensiamo alle parole come dispositivi che possono transitare sia verso l’apertura allo sconosciuto che verso la chiusura del già noto, troveremo molte analogie tra le pratiche discorsive e la composizione delle forme.
Queste due attitudini, quella di entrare in composizione e quella di uscire dalla definizione, ci permetteranno di indagare, in vitro, quello che accade nel corso delle interazioni tra architettura, digitale, intelligenza e artificiale. Il metodo che useremo sarà dunque quello di dubitare delle unità riportate dal senso comune, come quelle che vedono l’architettura come una strategia di organizzazione del molteplice, o il digitale come un intermediario della continuità del reale, o l’intelligenza come la principale caratteristica dell’umanità, fino all’intendere l’artificiale per semplice differenza rispetto a quanto è, invece, naturale. Ciascuna di queste unità racchiude innumerevoli altre idee, concetti indimostrabili, che svaniscono verso il basso, mano a mano che la stratificazione procede a ritroso, nel tempo.
Possiamo rinunciare a queste stratificazioni? Perché abbandonare l’illusione di una stratigrafia del sapere, dell’accumulo di cultura negli artefatti, della comunicabilità dei significati, o dell’enigmatica continuità del reale? Cosa ne guadagneremo? Certamente ci troveremo con pezzi da montare senza istruzioni, con una cultura tutt’altro che unitaria, affaticati dall’obbligo all’ignoranza, per non essere mai davvero certi di quali saranno tutte le conseguenze del nostro costruire il mondo. I barbari hanno improvvisamente invaso il mondo, siamo noi stessi.
Avremo bisogno di un catalizzatore che attivi questi transiti. Vogliamo dunque proporre la creatività, un fare creativo, possibilmente senza uno scopo preciso, per mettere in modo questi scambi. L’occasione sarà quella di un nostro progetto, il primo ad essere completamente digitale. Concepito e realizzato digitalmente dal nostro studio, Blu143, il BS Hotel è un ambiente completo, nel quale abbiamo ideato sia l’ambiente esterno che gli spazi interni – potete visitare l’Hotel a questo link o leggere di come è stato concepito sul nostro sito di Blu143 design studio. L’architettura e una sua produzione digitale ci hanno spinto a questa indagine, nella quale abbiamo inserito alcune riflessioni sui sintomi che ci sembra di rilevare nell’attuale cultura progettuale e sui sistemi di senso che convergono (oppure che a volte divengono conflittuali) nel campo sempre più vasto e profondo del visivo digitale.
Prima di tutto, però, soffermiamoci ad una breve analisi dei nostri quattro elementi: architettura, digitale, intelligenza e artificiale. Si tratta di quattro parole che non nascono tutte come nomi comuni. Le ho scritte una di seguito all’altra, distinte da una fragile virgola, un segno appena più marcato di un punto. Digitale e artificiale erano attributi, ma si sono guadagnati la loro autonomia sul campo, non avendo quasi più bisogno di un nome a cui riferirsi. Oggi il digitale ha un suo dominio, un suo campo di esistenza, tanto quanto l’artificiale. A differenza di architettura e di intelligenza, per digitale e artificiale l’origine sembra essere un orpello inutile, come pure l’etimo di provenienza, che è stato sovrascritto innumerevoli volte. Tendiamo a definire il digitale e l’artificiale in fase d’opera, con definizioni temporanee. Questi due termini non necessitano di un significato fondativo, indicano piuttosto modi, processi, trasformazioni. Abbiamo così messo insieme due nomi, architettura e intelligenza, dalla lunga e poderosa storia e in grado di definire intere civiltà, con due ex-attributi, il primo, il digitale, ben più giovane dell’altro, l’artificiale, che sembra invece balzato oggi agli onori della cronaca quasi per rivalsa, dopo essere stato messo da parte da secoli di filosofia.
Dopo averne fatto un elenco, mi è parsa poi una buona idea usare una virgola ripetuta, per dare visibilità al mezzo e per sospendere i loro continui trasferimenti di senso reciproco. Anche se, formalmente, si tratta di una lista, sarebbe sufficiente rimuovere una o due virgole perché il titolo si muova in una direzione meno distaccata, più connotata. Ad esempio, “architettura digitale, intelligenza, artificiale” ci farebbe pensare a città virtuali e ad architetture elaborate e composte attraverso algoritmi, nelle quali l’intelligenza e l’artificio potrebbero trarre reciproco stimolo. Oppure, “architettura, digitale, intelligenza artificiale” ci condurrebbe a riflettere sul ruolo generativo delle intelligenze artificiali, nel generare pattern visivi riconoscibili come strutture ordinate, magari anche degli stili. Infine, “architettura digitale, intelligenza artificiale” ci porterebbe a pensare invece ad una dualità dalle molte sfaccettature: l’architettura, il più grande artefatto umano, una volta divenuta digitale potrebbe diventare il prodotto più alto della creatività artificiale, e l’atto del costruire diventerebbe la più alta dimostrazione della capacità di pensare, ma senza più alcun interesse per l’abitare.
Naturalmente, ciascuno di questi tre titoli potenziali è in qualche modo incluso nel ben più anonimo e grigio “architettura, digitale, intelligenza, artificiale”. Ci aspettavamo di parlare di strutture, algoritmi, costruzione, apprendimento, e simili, ma continuiamo a rimanere imbrigliati in quelle piccole virgole, capaci, nella loro insignificanza, di determinare quale direzione potrebbe prendere il discorso. L’intermediazione di quelle virgole, incuranti di quali significati precedano e seguano, è finalmente visibile per differenza. Diversamente dai nomi, le virgole non vogliono dire nulla, ma possono dirottare interi discorsi, generare fraintendimenti, interrompere l’apparente continuità della comunicazione. Tanto quanto le virgole sono refrattarie ai concetti e ai significati, tanto i nomi sono invece collosi, poiché ci illudono che ogni cosa sia chiaramente visibile, con una propria specificazione semantica, con delle proprietà e, in alcuni casi, con delle funzioni. I nomi sarebbero così una forma di design radicalmente semplificativa, capaci di rendere comuni e condivisibili idee e concetti altrimenti irriducibili. È il caso del parametricismo di Patrick Schumacher, o del decostruttivismo di Jaques Derrida, o della stessa archeologia di Michael Foucault, oppure del rizoma di Gilles Deleuze, fino al soggetto macchinico di Felix Guattari e all’attore-rete di Bruno Latour. Si tratta di nomi-concetto, che racchiudono invece di dispegare, scatole grigie che spesso non includono alcuna istruzione che renda più semplice accedere alle loro più intime complessità.
Una volta in più ci troviamo di fronte ad un framezzo che continua a separare le parole e le cose, qualcosa di impalpabile, che non sappiamo ancora se è vuoto o pieno (e di cosa?), nel quale le esistenze e le loro descrizioni cercano da tempo di entrare in contatto e di sovrapporsi, senza mai riuscirci. Questo cruccio, che riguarda più o meno direttamente quelle discipline che si occupano dei rapporti tra soggetto e oggetti, è presente da tempo, come un tarlo che continua a indebolire dall’interno la struttura delle discipline, masticandone silenziosamente le convinzioni. Perché in questo mezzo impalpabile sguazzano quelle idee che non hanno un metodo, non si curano di un’origine, e assomigliano fin troppo ad opinioni. Foucault, con il suo metodo archeologico, ha cercato di fornirci strumenti adatti ad esplorare questa brodaglia senza senso, poiché ne ha intravisto anche il lato positivo. Infatti, è proprio in questo miscuglio impalpabile che possono emergere nuove prospettive, grazie al fatto di non appartenere né alla reale materialità delle cose né alla completezza formale delle parole.
Cosa fare, allora? Buttare il miscuglio in nome dell’ordinato o esaltarne invece l’autonomia, correndo il rischio che, di opinione in opinione, non ci resti più nulla di cui essere sicuri? Non temete, non c’è una vera scelta da effettuare, non c’è nemmeno un bivio tra la strada che porta ad un ordine, ottuso, ma ripetibile e basato su tipi formali, o un disordine, ricco di informazioni, ma denso di prototipi unici. Siamo già nel Mezzo.
Purtroppo, una volta che avremo deciso che questo Mezzo è quantomeno degno di essere preso in considerazione, ci accorgeremo che altri problemi ci si sono appiccicati addosso. Perché anche le parole e le cose hanno una loro storia, e si sono a loro volta trasformate. Purtroppo, Foucault non può aiutarci, non avendo potuto sperimentare personalmente il nostro tempo fisico-digitale, nel quale le cose hanno ampliato esponenzialmente il loro numero, dismettendo, via via, la loro materialità. Abbiamo sempre più problemi di ontologia, per capire quali sono le ragioni d’essere delle cose, soprattutto quelle che ibridano la materia fisica e i codici digitali. Abbiamo poi problemi di rappresentazione, poiché le immagini tendono sempre più ad essere originali e istantanee, senza necessariamente dire qualcosa di ciò che è stato, come nel caso delle foto, o anticipare qualcosa di ciò che potrebbe essere, come nel caso delle blue print o dei render di progetto. Abbiamo, infine, problemi cognitivi, in quanto la vista è il principale senso che ci permette di riconoscere i pattern degli eventi e le proprietà degli oggetti che sono distribuiti nel mondo esterno.
Sembra che la soluzione implicitamente proposta ai problemi di ontologia, di rappresentazione e di conoscenza sia quella di aumentare, metaforicamente, la densità del miscuglio, così da renderlo sufficientemente colloso sia alle parole che alle cose. Anche se, come scrive Foucault, è impossibile utilizzare il linguaggio per ottenere un’accurata descrizione di un’immagine, in quanto il linguaggio e il visibile sono incompatibili, è solo attraverso la mediazione di un linguaggio grigio e anonimo che è possibile mantenerli sufficientemente vicini. In altri termini, quello di cui dovremmo occuparci di più è quanto accade all’interno di quelle virgole, domandandoci, in primis, se lì, nel Mezzo, ci sia ancora posto per l’umano.
Nel prossimo post parleremo di quali questioni si intrecciano nella produzione visuale, cercando di mostrare come sia possibile cercare di sradicare le immagini dal loro referente solo pagando lo scotto di far sviluppare questa dimensione intermedia, nella quale il politico torna a intrecciarsi alla creatività.