ARCHITETTURA, DIGITALE, INTELLIGENZA, ARTIFICIALE – 5

Parte quinta – essere umani, essere soggetti.

Siamo arrivati alla fine di queste riflessioni, inizialmente dedicate ad una lista di quattro nomi, separati da una semplice virgola. E’ stato un percorso intenso, con molte gemmazioni collaterali, per le quali ho la responsabilità di indicare una chiusura, una certa quadratura finale.

Fin qui ho cercato di mostrare come il visivo nasconda il politico, come sia impossibile distinguere il continuo dal discontinuo e come sia auspicabile un rinnovato interesse per una filosofia delle immagini e per una filosofia del design digitale. Ci siamo in parte disabituati ad indagare la parte meno visibile dei processi, e il nostro immaginario è continuamente alimentato da vedute di ogni tipo, occupato, saturato, intasato. D’altro canto, però, ci manca anche una certa pragmatica dell’immagine, che ci aiuti a considerare le immagini, soprattutto quelle generate e di sintesi, come oggetti dotati di una propria modalità di esistenza, e non come mere rappresentazioni. Il primo passo da compiere, dunque, non è chiudere gli occhi, ma iniziare a vedere con altri occhi, riuscendo ad indagare l’umano dal di fuori. In questo potrei essere in accordo con Harman, quando suggerisce di leggere l’umano come un semplice ingrediente, tra molti altri, della società. Ma preferisco declinare questo punto di vista in chiave estetica, sostenendo che non dovremmo più accontentarci del nostro vecchio ruolo di autori e di osservatori. Divenire altro, aumentare i punti di vista, e poi, forse, tornare ad immaginare, di più e meglio, anche con l’aiuto della tecnologia e dell’artificiale. Federico Ferrari, nel suo L’insieme vuoto – per una pragmatica dell’immagine, si chiede perché lo sguardo di un animale sia così diverso da quello di un uomo. Un cane guarda il mondo dalla finestra, ma non si sofferma sulle immagini che scorrono sugli schermi, perché distingue nettamente “l’immagine del mondo” dal “mondo-immagine”. Prima di lui, Mario Perniola si poneva la questione in termini più ampi: possiamo realmente sperimentare altre modalità di esistenza, divenendo cose o animali? Riflettere sull’artificio, sulle immagini e sull’immaginario ci ha portati fin qui, a domandarci se ancora siamo convinti di sapere realmente noi cosa siamo diventati e quale sia il nostro nuovo ruolo nell’immaginario che si trova tra il mondo e il mondo-immagine.

Siamo Umani? Attorno a questa domanda, nel 2021, preparando la terza Biennale del Design di Istanbul, la professoressa Beatriz Colomina e il professor Mark Wigley hanno raccolto frammenti e note, che hanno definito come un’archeologia del design. Il riferimento all’archeologia foucaultiana è stato utile per chiarire che si trattava di enunciati frammentari ma interagenti, anche se non più (o non ancora) in grado di definire una disciplina o un corpus unitario. Per Foucault, in una archeologia, gli enunciati e i discorsi vengono considerati, oggetti delle pratiche discorsive, nel tentativo di evitare il proliferare delle interpretazioni e delle opinioni. Dal punto di vista dei rapporti tra il linguaggio e il senso, un’archeologia si comporta come una specie di ultima difesa della stabilità dei discorsi, dell’irriducibilità “del complesso di regole che essi mettono in opera” (in M. Foucault, Archeologia del sapere). Nella prospettiva proposta dal filosofo di Poitiers, non sembra concesso al linguaggio di spingersi oltre, poiché, superate le barriere dell’archeologia, saremo nel campo delle rapide associazioni e delle ibridazioni del visivo, al di là della possibilità di determinare la verità in modo oggettivo. Se volessimo continuare ad operare all’interno di una disciplina, dovremmo immaginare l’archeologia foucaultiana come il nostro avamposto fortificato, piazzato a difesa della frontiera con il caos.

Nonostante la disponibilità di dispositivi filosofici, la domanda Siamo umani? rimane, tuttavia, ancora senza risposta. Probabilmente perché, in fondo non si tratta di una sola domanda, ma di due questioni intrecciate insieme, che ci impediscono di affrontarle singolarmente, secondo una cronologia. Dovremmo prima chiederci cosa ci rende umani? e, solo dopo, potremo valutare se quella specificità sia ancora lì, a permetterci di essere umani. Siamo invece costretti a considerare le questioni simultaneamente, e a considerarne la persistenza.

Etnologicamente, gli esseri umani, essendo sostanzialmente dei corpi organici con estremità per la deambulazione e per la manipolazione, dotati di un’intelligenza in grado di riconoscere oggetti e situazioni e di formulare ipotesi e previsioni, sono già stati oggetto di numerosi attacchi alla loro umanità. La produzione industriale ha rimodellato i rapporti tra la manipolazione umana e gli oggetti, al punto che, per resistere a queste forme di disumanizzazione, per lungo tempo il corpo è stato considerato il centro tematico di ogni possibile umanesimo. La produzione industriale non ha operato programmaticamente solo sul corpo, ma sta mostrando una straordinaria capacità di rimodellare anche l’intelligenza. Ponendoci nel punto di vista di Latour, potremmo suggerire che, dopo aver sottratto l’agentività alla natura, de-animandola per trasformarla in materia bruta a disposizione dei processi produttivi, la produzione industriale ha operato una de-umanizzazione del soggetto per impadronirsi della sua capacità di agire, pensare e determinare centri. Un mondo costituito di materiali a disposizione, dislocabili a piacimento, con miliardi di potenziali consumatori: è lo scenario che traspare dalle argomentazioni di Siamo Umani?, e il design appare come lo strumento principale di queste raffinate forme di sottrazione di quanto rende la natura naturale e l’uomo umano.  

Purtroppo, anche l’etnologia ha gli stessi problemi strutturali della storia, quando ci presenta i processi e le trasformazioni come appartenenti ad un unico flusso temporale continuo. In altre parole, se vogliamo capirne di più dell’umano, dobbiamo prima rinunciare all’idea di una origine in grado di proiettare la sua lunga ombra su tutte le trasformazioni successive. Dunque, la definizione etnologica di uomo non ci potrà più dare garanzie sufficienti. Servirà correre ai ripari, tentare definizioni temporanee, senz’altro migliorabili. Dovremo, in definitiva, rendere l’umano, simultaneamente, soggetto e oggetto di design. È uno scenario assai difficile da gestire, che ricorda fin troppo da vicino la schizofrenia e la paranoia di racconti dickiani, come A Scanner Darkly. Tuttavia, come ci ricorda Naomi Klein, ormai l’allucinazione stessa è entrata a far parte del produttivo, dal momento che le intelligenze artificiali, nella loro ricerca di pattern, possono operare in uno stato allucinatorio (generando immagini senza senso) senza che venga loro attribuito alcun malfunzionamento. Se consideriamo il soggetto come oggetto di design, nonché l’estrema vicinanza tra soggetti e oggetti, potremmo anche intravedere, nei riverberi sempre più serrati tra il generato (l’umano, il naturale) e il prodotto (il digitale, il tecnico, l’artificiale), segnali di ibridazioni sempre più strutturate, rimescolate in processi di disaggregazione e composizione con ciclicità e persistenze spesso irriducibili, tuttavia capaci di trattenere, temporaneamente, frammenti di entrambi i domini, del generato e del prodotto.   

L’enorme quantità di prodotti di design, dall’immagine scattata dai nostri dispositivi personali, agli edifici che accolgono i nostri corpi o i nostri avatar, o ai biomi geneticamente modificati con cui conviviamo, tracciano, secondo Colomina e Wigley, “lo stato della nostra specie”. Personalmente, interpreto l’ipotesi di fondo di Siamo Umani? come duplice, e riguarda da un lato l’ipertrofia della produzione, mentre dall’altro concerne la definitiva sublimazione del ruolo del soggetto-autore all’interno degli innumerevoli processi produttivi.

L’ipertrofia della produzione ci fa capire sempre meno, quando ci troviamo di fronte ad un oggetto mantenendo la nota distanza critica dei soggetti. Grazie all’incommensurabile quantità di prodotti fisici e digitali abbiamo superato la soglia entro la quale l’artefatto costituiva il consolidamento del nostro sapere e poteva dunque rappresentare il nostro grado di civilizzazione. Siamo arrivati al punto che, tendenzialmente, ogni nostra azione diviene prodotto, poiché le tracce di queste azioni vengono sempre più frequentemente tradotte in dati, il componente grezzo di gran parte dell’economia immateriale che ci circonda e che ne trae profitto. L’azione, per sua natura, ci rimane vicina, appiccicata. Attraverso le azioni, gli oggetti hanno superato la distanza critica, si sono incollati ai soggetti.

La prima conseguenza di questa prima ipotesi è che risulta sempre più complicato riuscire a ricostruire le strutture cognitive e disciplinari che hanno reso possibile la realizzazione degli artefatti, i quali operano sempre più come delle scatole nere. Ad esempio, se guardiamo un getto di calcestruzzo realizzato da Scarpa negli anni ’70, siamo in grado di ricostruire quando e come è stato fatto, e gran parte del processo di costruzione è sufficientemente evidente ad uno sguardo educato alle prassi costruttive contemporanee all’opera. Quando invece osserviamo un NFT non siamo in grado di operare alcun riconoscimento diretto del quando e del come, poiché non c’è traccia evidente del processo di realizzazione, e nemmeno una qualche implicita persistenza delle azioni che lo hanno prodotto. Mentre il getto di calcestruzzo può ancora attivare una qualche discorsività con noi osservatori, l’oggetto digitale rimane immutabile e silenzioso, a meno di non poter accedere ai suoi metadati, che non potranno mai fornirci abbastanza tracce per poterne ricostruire il processo di produzione. La seconda conseguenza dell’ipertrofia della produzione è che la distinzione tra prodotto e generato non sembra avere limiti sufficientemente solidi da poter tenere separate, ad esempio, l’economia dalla biologia, o l’architettura dalla botanica, ma nemmeno il soggetto dagli oggetti, o i diversi campi del design, o le sue scale.  

L’altra ipotesi di fondo di Siamo Umani? sembra riguardare la definitiva archiviazione del soggetto-autore, per come è stata presentata alla fine degli anni ’60 dallo stesso Foucault. Nelle pagine iniziali della sua Archeologia del sapere, il filosofo francese sottolineava l’emergere della discontinuità della storia e della cultura, alternativa ad una continuità fittizia, artificiosamente costruita per sostenere il ruolo centrale (e dominante) del soggetto. “(La storia continua è) la promessa che il soggetto potrà un giorno – sotto la specie della coscienza storica – impadronirsi nuovamente di tutte le cose che la differenza tiene lontane, riaffermare il proprio dominio su di loro (…)”, scrive Foucault. La funzione dell’autore, uno dei ruoli sociali del soggetto nella produzione culturale, era quella di “caratterizzare l’esistenza, la circolazione e il funzionamento di certe pratiche discorsive all’interno della società”, così da stabilire una gerarchia tra le differenti ontologie, distinguendo l’unità di quanto doveva essere preso in considerazione, separandolo dalla frammentata molteplicità di quanto era, invece, ancora rimescolato dalle pratiche discorsive. Le conseguenze della dismissione del soggetto-autore sono molteplici: per la prima volta, alcune specificità del soggetto vengono distribuite (la sua capacità di operare simultaneamente all’interno e all’esterno dei sistemi formali, per migliorarne i processi descrittivi e inferenziali; la sua creatività; l’univocità delle sue scelte progettuali, e dunque la sua agentività; il suo essere modello dei processi interpretativi e produttivi; il suo diritto a rimanerne comunque esterno); inoltre, senza più un soggetto alla ricerca di unità e continuità, i frammenti del discontinuo mostrano quanto sia divenuto importante ciò che sta nel mezzo, quell’invisibile medium relazionale che permette ai frammenti di assumere configurazioni sufficientemente stabili da essere ripetibili, anche se difficilmente potranno tornare ad essere talmente consolidate da non risentire del fluire del tempo; paradossalmente, senza un soggetto-autore, le regole della composizione dei frammenti assumono la medesima valenza dei frammenti: quando i soggetti e gli oggetti interagiscono sullo stesso piano di esistenza, il design sembra balzare improvvisamente sul gradino più alto delle discipline.   

Tuttavia, a questo punto, la questione più urgente diviene cosa è il design? Mentre Beatriz Colomina e Mark Wigley sostengono, da un punto di vista sociotecnico, che il design tende a nascondere le frizioni (sociali, politiche ed economiche) in una generalizzata smoothness, Bruno Latour ne dà una lettura più tecnosociale, mostrando come il design sia in realtà un processo di ri-mediazione, di affinazione e risoluzione delle controversie che nascono dal dialogo forzoso tra le ragioni dei soggetti e i programmi di funzionamento degli oggetti (che non sono che parziali trascrizioni delle intenzioni dei loro designer). Se concediamo alla tecnica sufficiente agentività, potremo, forse, intravedere alcune processualità che rimanevano invisibili alla prospettiva sociotecnica. Il primo passo per esplorarle è probabilmente quello di non limitarsi a considerare le fasi dei processi come componenti semplici, dotate solamente di un ingresso e di un’uscita. Tra l’input e l’output si raddensano procedure e sottoprocedure, nelle quali sono state inscritte sia funzioni che interpretazioni. È dunque tra l’input e l’output delle procedure che viene nascosta quella parte della civiltà che un tempo veniva materializzata negli artefatti. Ho chiamato questa componente del design, così nascosta ma fondamentale, come dark design, e il digitale sembra avere una peculiare predisposizione a occultarne ulteriormente i processi. Diversamente da quanto afferma Del Campo, ritengo che un ecosistema ibrido, umano-digitale, vada letto in un modo dichiaratamente non antropocentrico. L’umano gode di una modalità di esistenza molto più stabile, rispetto a quella del digitale, ed egli dovrà averne molta cura, supportarne la fragile obsolescenza, educarne pazientemente i deliri. Lo facciamo già coi nostri dispositivi personali e con tutti gli avatar con cui colonizziamo piccoli frammenti della vastità del WWW. Ritengo dunque che l’ecosistema descritto da Del Campo non comporterà tanto un’implementazione postumana dei limiti dell’umano (in termini di innovazione, creatività o produttività), quanto una stabilizzazione ontologica del digitale, un riconoscimento a pieno titolo del suo non essere più un semplice strumento.

L’architettura, l’oggetto immobile che possiamo attraversare ed abitare, è probabilmente il campo più avanzato di queste forme di coabitazione reciproca tra l’umano e il digitale. Inoltre, poiché l’architettura è un campo di enunciazione particolarmente complesso, conflittuale ma anche potenzialmente inclusivo, ci interessa, qui in chiusura, di capire quanto e come l’architettura possa essere, oggi, capace di fornire un adeguata cornice per poter interpretare un mondo dominato dal visivo. Il primo stimolo a porre la questione in questi termini è derivato dal dibattito generalista attualmente in corso attorno all’intelligenza artificiale. Abbiamo parlato di dataset e di allucinazioni, di disaggregazioni e ricomposizioni, di continuità e di discontinuità, senza mai dire chiaramente che le intelligenze artificiali sono specchio e sintesi applicativa dei modelli cognitivi derivati dalla nostra interpretazione del funzionamento dell’intelligenza umana.

Quello che riunisce architettura e intelligenze artificiali non è tanto la ricerca formale o il trasferimento di stili. E’ il loro funzionare come specchi, del nostro agire e del nostro pensare. Per entrambe ci troviamo, in estrema sintesi, nel campo della rappresentazione della conoscenza (knowledge representation): la prima riguarderà una conoscenza appresa, le seconde interesseranno invece una conoscenza in fase di esplorazione. Il nuovo ecosistema fisico-digitale di coabitazione avrà ancora bisogno dell’umano, anche se potremmo definirlo post-autoriale.

Postulo dunque che l’architettura, se viene sottratta alle dinamiche del mercato e svincolata dalla sua dimensione politica, possa essere considerata convenzionalmente come una metodologia di trascrizione della conoscenza collettiva nello spazio abitato. Questa trascrizione avviene in entrambe le direzioni, tra l’opera e i soggetti coinvolti, e in essa cooperano la costruzione e la rappresentazione. La trascrizione rifluisce attraverso quello che ho semplicisticamente chiamato il Mezzo, e avviene principalmente grazie alla funzione della metafora, per come è stata descritta da Ortega Y Gasset. Nel Mezzo si formano concetti, utili per stabilire, simultaneamente, dei punti di contatto tra il mondo esterno (la realtà) e il monto interno (l’interpretazione). Mi baso sull’idea degli spazi concettuali proposta da Peter Gärdenfors nel suo Conceptual Spaces (2000). Ritengo infatti che molti ambiti semantici legati ad entrambi i domini, del costruito e del digitale, abbiano trascurato l’aspetto cognitivo e concettuale, rimanendo confinati in quello simbolico e analitico o in quello subconcettuale e connettivista. Il problema del primo confinamento è un eccesso di autoreferenzialità, utile per mettere ordine ma poco praticabile in termini di resilienza e di aderenza ai contesti. In sintesi, in questo primo caso avremo a che fare con un eccesso di concentrazione e dei processi progettuali. Il problema del secondo confinamento è, d’altro canto, l’impossibilità di individuare progetti praticabili e di codificare forme di apprendimento. In sintesi, in questo caso ci troviamo di fronte ad un eccesso di dispersione dei processi progettuali.

Quanto intendo sostenere è che una qualsiasi contrapposizione duale tra il costruito e il digitale sia in di fatto l’esito di una serie di fraintendimenti che hanno contribuito al consolidarsi di una soluzione semplice da pensare piuttosto che di quella più ricca di contenuti e di sviluppi futuri. Per i sostenitori dell’architettura digitale questa mia affermazione risulterà fin troppo ovvia, ma probabilmente non hanno ancora considerato quanto di costruttivo sia stato interiorizzato nel digitale, rendendolo qualcosa di più di una rappresentazione in vitro del reale. Inoltre, sembra che essi non sentano la necessità di alcuna filosofia delle immagini, né alcuna considerazione in merito all’irrisolta questione della loro verità rispetto al mondo in sé, che accompagna l’Occidente fin delle sue origini culturali.

D’altro canto, invito invece i sostenitori del materialismo dell’architettura costruita, spesso determinati nel ritenere, a ragione, che solo nella costruzione del reale si possano ritrovare indizi del tempo e dell’agire collettivo, a considerare quanto la realtà sia tutt’altro che definita da opere chiuse e cronologicamente ordinate. Inoltre, le invenzioni dell’idea di tempo e dell’idea di materia sono processi di lunga durata, e nulla sembra farci sospettare che essi siano compiuti, anche se, come abbiamo visto, ci sono numerosi sintomi che sembrano indicare la nostra intenzione di sublimarli, elidendoli dalla preponderante cultura del visivo. Sembra che i materialisti preferiscano una concezione del tempo anti-immanente, in grado di non prendere in considerazione gli eventi emergenti nelle acque placide della loro idea di tempo. L’Occidente ha un problema originario nel pensare il tempo, sostanzialmente legato all’imperfezione del cambiamento e all’imprevedibilità dei fenomeni, e la costruzione è spesso stata usata come processo di consolidamento di questa implicita instabilità del reale.

Ci sono dunque molti puntini di sospensione nel discorso su architettura neurale e su intelligenza artificiale, ma abbiamo fortunatamente un ottimo bagaglio culturale a cui attingere per continuare nell’esplorazione del digitale che ci sta avvolgendo, senza commettere l’errore di considerarlo collaterale o intrinsecamente pericoloso. Penso dunque che le seguenti parole di Ferrari ci possano aiutare a scorgere la direzione da seguire:

Quel che manca, oggi, non è una modalità di previsione ancora più complessa, capace di prevedere qualunque scenario possibile; quel che ci manca è la capacità di accettare che il mondo sia non solo il luogo del possibile e di tutti i possibili ma anche il luogo dell’impossibile, dell’immagine imprevista (Federico Ferrari, L’insieme vuoto – Per una pragmatica dell’immagine, ed. Johan & Levi, Monza, 2013)

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