HIGH LINE STORIES #05 – più di un singolo parco

Quando il progetto della High Line passò dall’essere un’ipotesi (come era descritta in Reclaiming the High Line) alla sua fase di progetto definitivo (a un passo, dunque dalla sua realizzazione), si rese necessario mettere in agenda quei passi amministrativi necessari per autorizzare il processo ai diversi livelli di gestione territoriale, quello locale, quello statale e infine quello federale. Pur avendo il sostegno esplicito dell’amministrazione Bloomberg, queste procedure dovevano essere affrontate direttamente dagli Amici della High Line in quanto promotori del processo. Occorreva dunque, per Joshua e Robert, imparare le procedure, capire come compilare i documenti necessari e apprendere un pizzico di regolamenti urbanistici territoriali.

LEGITTIMARE UN PROCESSO INNOVATIVO SIGNIFICA RENDERLO RIPETIBILE 

Quando immaginiamo un progetto di rigenerazione urbana, ad un certo punto del processo ci ritroveremo ad affrontare la complessità legata alla legittimazione del progetto. Questo significa che esso, nel suo essere promotore di innovazione, dovrà corrispondere alle leggi e ai regolamenti vigenti, in alcuni casi dovrà contribuire anche alla redazione delle necessarie modifiche di legge e delle eventuali varianti urbanistiche che permetteranno al progetto stesso di diventare una realizzazione permanente nel proprio contesto urbano. Il passaggio dal temporaneamente legittimo al permanentemente normativo è fondamentale per un progresso del collettivo urbano (edifici+spazi pubblici+comunità+normative).

Landing page del sito Groundplay.org

Se riusciamo dunque a guardare oltre le fatiche imposte dalla spesso farraginosa burocrazia amministrativa, ci accorgeremo che rispettare leggi e regolamenti è il modo migliore per assicurare che il nostro impegno progettuale non sia vano. Ce lo insegna lo stesso urbanismo tattico, che è una modalità per permettere alle comunità urbane di segnalare, temporaneamente, possibili funzioni alternative per spazi urbani dismessi o mal funzionanti. L’obiettivo delle performance di urbanismo tattico è infatti quello di aprire canali di discussione con le pubbliche amministrazioni, al fine di modificare i regolamenti vigenti e consentire cambi di destinazione d’uso di aree urbane. Forse l’esempio più noto di urbanismo tattico sono i parking day (sperimentati per la prima volta a San Francisco nel 2005), che hanno spinto poi la stessa San Francisco  a dotarsi di uno specifico regolamento (il Parklet Manual, del 2015) per la realizzazione dei parklets, trasformando un gesto temporaneo e quasi illegittimo in una modalità riconosciuta di rifunzionalizzazione di un piccolo spazio pubblico, come un posto auto a lato carreggiata. Recentemente la città di San Francisco ha raccolto le varie iniziative rivolte alle innovazioni urbane in una piattaforma dal nome sintomatico Groundplay – when imagination goes public. 

Naturalmente, per spingere la pubblica amministrazione a modificare i regolamenti urbanistici, è fondamentale convincerla che le migliorie proposte (mediante progetti, convenzioni, accordi pubblico-privati, ecc…) siano effettivamente di pubblico interesse. Capire (e poi comunicare) quali siano i benefici per l’interesse comune è un tema scivoloso. Richard Florida e il suo team di ricerca vi hanno dedicato molti anni di studio (al Martin Prosperity Institute), analizzando montagne di dati, arrivando, indirettamente, a dimostrare che non esiste una valutazione davvero oggettiva per capire se un progetto gioverà alla città, se riuscirà dunque ad innescare un processo di innovazione equilibrata, aumentando la produttività intraurbana senza generare conflitti o distribuzioni asimmetriche del valore urbano. In sintesi, è molto probabile che la nostra comprensione scientifica dei fenomeni urbani sia intrinsecamente limitata, e possa solo analizzare trend consolidati (variazioni delle rendite fondiarie, migrazioni interne delle diverse classi economiche, variazione dei valori immobiliari, ecc…). Ne conseguirebbe che la valutazione a priori degli esiti di ogni innovazione urbana non possa che essere di carattere laboratoriale e sperimentale (di qui il gran lavoro editoriale di Richard Florida sul sito Citylab).

“Mentre moti paesi raccolgono dati sulle città e sulle aree metropolitane, i differenti modi in cui le metropoli sono definite attraverso le nazioni e le differenze nell’associare i dati economici alle aree metropolitane rendono virtualmente impossibile fare confronti transnazionali, anche per le nazioni più avanzate come gli Stati Uniti, il Canada e i paesi dell’Europa. Inoltre in molti paesi di sviluppo recente e che si stanno urbanizzando il più velocemente possibile, non ci sono nemmeno dati economici disponibili. Questo è un grosso problema, e come ho detto al summit UN a Medellin, dobbiamo porvi rimedio prima ancora di iniziare a sperare di capire quali siano gli stimoli che conducono ad un’urbanizzazione di successo”. (Richard Florida, The New Urban Crisis – gentrification, housing bubbles, growing inequality and what we can do about it)

ESPERIMENTI NEL LABORATORIO URBANO DI NEW YORK (PlaNYC)

I processi di rigenerazione urbana dovranno dunque essere predisposti ad una parallela apertura all’apprendimento e alla miglioria, in fase d’opera. Questo tipo di lettura dei processi di rigenerazione urbana comporta un generale (e sempre più necessario) ridisegno delle metodologie di intervento urbano, che non potranno affidare al solo urban design e alla sola architettura la risoluzione dei problemi di funzionamento di parti di città.

Dunque il processo di revisione dei piani urbanistici dovrebbe essere resiliente tanto quanto il processo di adattamento (tailoring) del design architettonico. Più i due processi diventano interoperabili (pur mantenendo le specifiche competenze disciplinari e dimensionali) più i progetti di rigenerazione urbana possono essere efficienti.

Un buon esempio di questa interoperabilità è dato dal lavoro del Dipartimento dei Trasporti (Department Of Transport- DOT) della città di New York, sotto l’assessorato di Jannette Sadik-Khan, durante il secondo mandato di Bloomberg, mentre il progetto della High Line veniva finalmente realizzato e aperto al pubblico. Prima di raccontarvi del tortuoso percorso di legittimazione amministrativa della High Line, ci interessa quindi darvi un’idea del contesto culturale che permeava la pubblica amministrazione in quel periodo, e che dette un impulso altrettanto determinante alla realizzazione del progetto proposto dagli Amici della High Line.

Quando Jannette Sadik-Khan arrivò al DOT, Bloomberg era convinto che la mission dell’assessorato fosse il traffico. Ma Jannette aveva una visione più ampia: il DOT si sarebbe occupato di trasporti e mobilità urbana. Sapeva infatti che, nel dibattito decennale sulla convivenza tra auto e pedoni, New York aveva avuto, storicamente e urbanisticamente, un padrino (l’architetto Robert Moses) e una madrina (l’urbanista e militante Jane Jacobs), e che le loro due opposte visioni (una città modernista la visione dell’uno, e una città comunitaria l’obbiettivo dell’altra) non avevano ancora trovato una sintesi praticabile, pur essendo trascorso più di mezzo secolo dai loro vivaci scontri sulla stampa.

Nella mission del DOT di Jannete avrebbero dovuto trovar posto entrambe le visioni, lavorando su di una mobilità ben regolamentata, in cui auto, autobus, corrieri, taxi, biciclette e pedoni potessero sfruttare al meglio le strade di New York. E’ infatti universalmente riconosciuto dagli scienziati urbani che le infrastrutture costituiscono la principale risorsa spaziale delle città, e che, dalla Parigi di Haussman in poi, mettere mano alle strade di una metropoli è auspicabile ma anche assai oneroso. Haussman, nel XIX secolo,  finì in bancarotta a causa della poderosa mole di lavori edili realizzati sull’intera capitale francese; fortunatamente a New York si poteva fare a meno di sventrare tessuti urbani per fare spazio. E Jannette Sadik-Kahn sapeva anche a chi rivolgersi per avere, al DOT di New York City, il miglior consulente su piazza globale  per la razionalizzazione delle infrastrutture stradali e degli afferenti spazi pubblici (o privati ad uso pubblico – POPS): l’ottuagenario architetto danese Jan Gehl (che, dall’alto della sua pluridecennale esperienza, non ha certo lesinato critiche feroci alle tipologie abitative realizzate dal suo connazionale collega quarantenne Bjarke Ingels, fondatore dello studio BIG).

Copertina del report sull’attuazione di PlaNYC

Fortunatamente per Janette, il consigliere allo sviluppo economico Dan Doctoroff (ve lo ricordate, a proposito dello studio di fattibilità per la High Line?) aveva già predisposto un piano per la sostenibilità a lungo termine, il noto PlaNYC (adoro questo nome, lo ammetto). Quando Janette aveva incontrato per la prima volta il nuovo sindaco Bloomberg nella primavera del 2007 il piano di Doctoroff non era ancora di dominio pubblico.

“’Perché vuoi diventare assessore al traffico?’ mi chiese il 108mo sindaco di New York. Era la prima volta che mi trovavo nella stessa stanza col sindaco Michael Bloomberg, il miliardario imprenditore e neo-sindaco, ora affiancato da sei dei suoi consiglieri, come Cavalieri di Camelot seduti ad una immensa tavola rotonda. La sua domanda non era un test. E’ un fraintendimento comune l’idea che il lavoro dell’assessore (ai trasporti) sia limitato alla sola gestione del traffico.

‘Io non voglio essere assessore al traffico’, risposi. ‘Io voglio essere assessore ai trasporti.’ Bloomberg non disse nulla, e nessuno intervenne per spezzare la tensione che si era creata. Beh, per lo meno sono riuscita ad incontrare il sindaco, mi consolai, convinta di aver mandato in malora il colloquio.

Mi sbagliavo.

Bloomberg mi presentò ai giornalisti e al pubblico di New York City ad una conferenza stampa il 27 aprile 2007, una settimana dopo che PlaNYC era stato presentato al pubblico. ‘Non mandare tutto all’aria’ (don’t fuck it up), mi sussurrò dopo che avevamo finito le presentazioni. Stava scherzando solo a metà. Non avevo ancora capito, al tempo, che era un piccolo avvertimento che dava a tutti i suoi dipendenti.” (Janette Sadik-Khan, Street Fight – handbook for an urban revolution, 2016)

PlaNYC – a Greeener, Greater New York (potete darci un’occhiata qui) è un piano complesso e dettagliato, articolato in 127 iniziative dedicate alla sostenibilità urbana. Si proponeva di ridurre del 30% le emissioni di CO2, implementando al contempo la qualità della vita a New York City. In merito al sistema dei trasporti, PlaNYC richiedeva l’attuazione di nuove strategie, come quella di sviluppare reti di autobus veloci e piste ciclabili.

“PlaNYC era un manuale per riscrivere il codice stradale esistente e superare il falso mito che New York fosse una città ingovernabile” (J. S-K, Street Fight)

Per inciso: le strategie di governo degli spazi urbani non sono un semplice corollario dell’urbanistica contemporanea. Se le previsioni dei programmi ONU riguardo lo sviluppo esponenziale dei centri urbani sono corrette, è inevitabile che attorno al 2050 ci troveremo in una grande periferia globale con punte di altissima densità nelle aree indocinesi, nel continente sudamericano e in quello africano (che secondo Richard Florida corrispondono alla seconda e terza ondata di urbanizzazione globale). A quel punto sarà impossibile per un qualsiasi masterplan di riuscire a governare le aree urbane imponendo solamente funzioni e destinazioni d’uso delle aree, poiché l’attività umana (è) sarà fin troppo accelerata (lo dico in onore al recentemente defunto Paul Virilio). Allora, secondo analisti e scienziati urbani, a quanto sembra le alternative saranno due. La prima è l’autoregolamentazione della cosiddetta città auto catalitica, in cui le attività informali (dai mercati, alla residenza ai trasporti pubblici) avranno preso il sopravvento su quelle regolamentate. La seconda è l’applicazione di un nuovo layer urbano dedicato al controllo e all’automazione, con un suo sostanziale sub appalto ai colossi globali dell’informazione, la cosiddetta smart city. Dunque, se gli indici di sviluppo urbano planetario sono corretti, il controllo e il governo degli spazi urbani stanno divenendo importanti mercati per i grossi player come IBM, Cisco, Google e Uber. Non è un caso se il ‘nostro’ stesso Dan Doctoroff, veterano di Wall Street, autore e promotore di PlaNYC ed ex-vicesindaco di New York con Bloomberg, è attualmente assunto da Alphabet di Google per guidare il progetto Sidewalks Labs, che propone soluzioni di infrastrutture digitali per le aree urbane (il che mi ricorda un nostro vecchio progetto per Padova, che potete trovare qui).

Abbiamo capito, quindi, che dovremmo cambiare il modo in cui vediamo lo spazio urbano a destinazione pubblica. Non si tratta, banalmente, di ciò che sta tra gli edifici (magari progettati da starchitects ), ma è il sostrato urbano e organico (perché abitato da uomini, piante, animali e insetti) che riesce ad alimentare lo stesso mercato immobiliare, determinando, di fatto, quello che è il contesto posizionale. Dunque, per le città globali come New York, saper governare lo spazio urbano significa poter garantire investimenti globali. Per queste ragioni Janette Sadik-Khan ritiene lo spazio urbano una risorsa (un asset), e quello di New York è davvero una risorsa corposa!  La superficie complessiva sotto il controllo diretto del DOT di New York City conta per il 25% dell’intero territorio metropolitano. I dati quantitativi sono davvero massivi:

  • 138 km di strade
  • 312 km di marciapiedi
  • più di 1 milione di segnali stradali
  • 700 incroci con semaforo
  • 300.000 armature stradali
  • 789 ponti.

Secondo Janette, saper rileggere, reinterpretare e rinnovare questo patrimonio di spazio pubblico è una delle chiavi dello sviluppo urbano per le megalopoli più dense del pianeta (le superstar cities, secondo Richard Florida, tra le quali New York e Londra si contendono la testa della classifica). Poiché “ogni abitante della città è un pedone ad un certo punto della giornata”, ogni investimento sugli spazi pedonali sarà un investimento universale. Ed ecco, infine, come Janette Sadik-Khan descrive la High Line e la sua importanza per New York, naturalmente dal suo punto di vista al DOT:

“Città come San Francisco, Buenos Aires e Mexico City stanno creando piccoli parchi al posto dei triangoli di asfalto (inutilizzati) o bonificando e riattivando gli spazi abbandonati al di sotto delle autostrade, dando loro nuova vita e creando quel ‘piccolo cambiamento’ che permetta ai contatti umani di far crescere la vita pubblica. I Plages e la Promenade Plantée di Parigi e la High Line di New York City attraggono milioni di visitatori in percorsi dove prima passavano i treni e in strade trasformate in parchi. Questi nuovi concept sono derivati direttamente dalle strategie dell’urbanismo tattico, capaci, per un solo giorno,  di trasformare i parcheggi in cafè temporanei o in mini-parchi. Sono esempi di alchimia urbana, che convertono vecchie infrastrutture in spazi pubblici moderni, capaci di risvegliare le città e di far muovere e sostare le persone. Lo sviluppo di questi progetti è particolarmente importante per far tornare le nuove generazioni nei centri urbani, spingendoli così alla rinascita.” (J S-K, Street Fight)

Credo sia chiaro che la High Line, alla fine, pur essendo una proposta proveniente dal basso, abbia rappresentato l’apice di una volontà politica che mirava a ricalibrare non solo gli spazi urbani di New York ma anche le strategie di lettura, gli strumenti di pianificazione e le modalità di valutazione di impatto per ogni progetto futuro sulla città. Non penso che gli Amici della High Line avessero in mente tutto questo, ma l’amministrazione Bloomberg riuscì ad appropriarsi politicamente del progetto, pur finanziandolo per due terzi, in cambio. Era inevitabile che accadesse (come succede invariabilmente in tutte le città del mondo). D’altra parte da qualche anno l’organizzazione Friends of the High Line sta lavorando attivamente con le comunità locali anche per ‘ridistribuire’ quanto ricevuto e appreso, nonché quella visibilità mediatica ottenuta grazie alla partnership con l’amministrazione Bloomberg e con i sostenitori VIP del progetto. Per questi contributi alle comunità locali Richard Florida li chiama anchor institution. Vedremo alla fine del post il significato di questa definizione che chiarisce il peso che hanno gli Amici della High Line sul territorio.

COME ARRIVARE AL RAILBANKING DI UN TRATTO FERROVIARIO DISMESSO (E A RISCHIO DI DEMOLIZIONE)

Per raccontarvi il percorso di autorizzazioni amministrative che hanno reso possibile la realizzazione legittima della High Line, e che hanno permesso di inserire nei piani urbanistici di New York le dovute forme di tutela del parco nel cielo, dobbiamo partire inevitabilmente dal santo Graal del processo: il railbanking.

Vi abbiamo già parlato di Jeff Ciabotti e della non profit Rails-to-Trails Conservancy, ma non abbiamo ancora chiarito come mai negli Stati Uniti questa organizzazione abbia un peso tale da essere il sostenitore principale di chi voglia trasformare un tratto ferroviario statunitense (rail) in percorso ciclo-pedonale (trail). Secondo un ragionevole principio di civiltà, i corridoi ferroviari degli Stati Uniti attraversano anche lotti di proprietà privata. Intuitivamente, quando il governo federale decide di dismettere un tratto ferroviario, il proprietario del terreno è ben felice di poter riutilizzare il terreno, magari a fini edificabili. Purtroppo questo passaggio sottrae per sempre quel corridoio dall’uso pubblico. Per questo il governo federale, nel 1983, ha capito che quei corridoi ferroviari dovevano assolutamente rimanere tra le disponibilità pubbliche, per cui corse ai ripari, con un emendamento ad hoc che introdusse lo statuto del railbanking (letteralmente mettere in banca – i corridoi ferroviari).

“Il governo federale aveva compreso che quando si perdono corridoi ferroviari, perdiamo anche delle risorse nazionali. Così nel 1983 approvarono un emendamento al National Trails System Act che includeva anche uno statuto per il ‘railbanking’. Questo stabiliva che il corridoio ferroviario poteva essere usato per un ‘uso momentaneo a percorso ciclo-pedonale’. In pratica il governo aveva predisposto un sistema per mettere al sicuro i corridoi ferroviari dismessi mediante il loro utilizzo come percorsi, poiché la nazione avrebbe potuto averne nuovamente bisogno in futuro.” (Joshua David)

Il certificato ad uso temporaneo a percorso (Certificate of Interim Trail Use – CITU) può essere rilasciato solo dall’ente federale dei trasporti (Surface Transportation Board – STP). Senza questo certificato è impossibile invocare lo statuto del railbanking. Questo significava che fino all’arrivo del CITU la High Line rimaneva una vecchia ferrovia dismessa che rischiava continuamente la demolizione. Ma c’era anche un altro problema: l’ente federale dei trasporti, in realtà, nel 1992 si era già espresso a favore della dismissione della piattaforma, con un conditional abandonment order.

“Il nostro lavoro era quello di tirar via la High Line dall’orlo del burrone, ribaltare la procedura, e convincere il medesimo ente federale a dire ‘Ok, non la demoliremo. Facciamoci un percorso, invece’. Da allora in avanti, ogni volta che facevamo la lista degli obbiettivi per l’anno in corso, in cima ci sarebbe stato: quest’anno riusciremo ad ottenere un CITU. Non avevamo la più pallida idea di quanto sarebbe stato difficile.” (Joshua David)

Come se non bastasse, Joshua e Robert sapevano benissimo di dover difendere la High Line anche dalle intenzioni dell’amministrazione locale. In linea con quanto dichiarato al New York Times in quell’articolo del luglio del 1999, il sindaco Giuliani era fermamente intenzionato a demolire la High Line. Alcuni tra i proprietari degli immobili che venivano deprezzati dalla presenza della piattaforma avevano infatti assoldato il lobbista Randy Mastro, uno degli ex vicesindaci di Giuliani, da buon lobbysta, aveva preso accordi col sindaco di New York City, contro la High Line. Nulla di personale, dunque.

“Dovevamo intraprendere un’azione legale. Avevo sempre pensato che i developer dovevano essere davvero astuti: in quale altro modo potevano far sì che i loro piani superassero le opposizioni e che venissero costruiti edifici che la gente non voleva? E invece adesso avevo capito che non tutti gli imprenditori edili dovevano necessariamente essere furbi. Era solo che assoldavano gli avvocati più astuti. Ma poteva funzionare anche nell’altro verso. TU potevi assoldare gli avvocati più furbi per fermare la costruzione o la demolizione di qualcosa. E questo era quello che volevamo fare.” (Robert Hammond)

Robert e Joshua ingaggiarono così l’avvocato Mike Hemmer, dello studio Covington e Burling, raccomandato loro da Richard Socarides, che era stato consigliere di Clinton alla Casa Bianca. Purtroppo la causa che preparò Hemmer non venne poi portata avanti, occorreva infatti un avvocato esperto in cause federali.

Come vi abbiamo già raccontato questo supporto legale non fu pro bono, e la spesa contribuì indirettamente a spingere l’organizzazione Friends of the High Line verso un approccio più imprenditoriale. Alla fine della causa contro la Città di New York, tuttavia, Hemmer iniziò a lavorare pro bono, affiancando gli Amici nella loro avventura.

“Anche se non utilizzammo il materiale di Hemmer, fu importante per noi raccogliere i soldi per pagarlo. Quando le persone donano si sentono più coinvolte e più motivate. Questo ci spinse a costruire un’infrastruttura, a creare un archivio, e a completare la procedura amministrativa per diventare definitivamente una non profit”. (Robert Hammond)

Cercheremo di approfondire nel prossimo post, dal titolo amici della High Line, gli aspetti legati all’organizzazione interna della struttura di governance, per ora anticipiamo il fatto che negli Sati Uniti secondo la classificazione IRS (Internal Revenue Service, l’analogo statunitense della nostra Agenzia delle Entrate) esistono almeno 27 tipi di organizzazioni non profit, tutte esenti da tasse federali e da molte delle tasse statali. La più diffusa è il tipo 501(c)(3), categoria che da allora incluse anche Friends of the High Line, permettendo all’organizzazione di accettare donazioni.

La battaglia legale contro la città di New York si spostò quindi sul piano federale, focalizzandosi su questioni prettamente urbanistiche. Un nuovo avvocato, Richard Emery, noto per aver reso più democratica la struttura di governo della città di New York grazie ad una causa del 1989, venne assunto da Friends of the High Line. Richard e il collega John Cuti, prepararono una causa basata sull’Articolo 78 del codice di procedura civile di New York. L’Articolo 78 permette ai cittadini di New York di appellarsi contro decisioni prese da un ente di governo (in questo caso l’amministrazione comunale della città) presso la Corte Suprema dello Stato di New York. Di solito l’argomentazione più diffusa di una citazione basata sull’Articolo 78 è che l’ente non ha rispettato le sue stesse regole nel prendere la decisione contestata.  Anche in questo caso Emery e Cuti citarono in giudizio la città di New York per aver emesso ordinanza di demolizione della High Line senza prima passare per una procedura di revisione di piano (Uniform Land Use Review Procedure – ULURP). La ULURP è ovviamente una procedura piuttosto lunga e laboriosa, che avrebbe superato la scadenza dell’ultimo mandato del sindaco Giuliani, di fatto impedendo che l’ordinanza di demolizione potesse essere attuata.

“(La causa) sosteneva in pratica che per partecipare alla demolizione della High Line la Città avrebbe dovuto passare per una ULURP, che è un processo di circa nove mesi che deve sottoporre le modifiche dell’uso di suolo ai consigli di quartiere, al presidente del distretto, al Dipartimento di Urbanistica (Department of City Planning) e infine al Consiglio Comunale”. (Robert Hammond)

C’erano due argomentazioni a sostegno dell’invocazione dell’Articolo 78. La prima riguardava il fatto che la città non poteva esprimersi sul destino della High Line senza prima esserne entrata in possesso. E la città non poteva acquistare la High Line senza prima completare la ULURP. La seconda argomentazione era invece più sottile, poiché riguardava la mappa ufficiale della città.

“(…) La High Line si trovava sulla mappa ufficiale di New York, un documento che mostrava strade, parchi e spazi pubblici. Rimuovere la High Line significava cambiare la mappa ufficiale, e questo, per legge, implicava ancora una volta una ULURP. (…) L’avvocatura della città, nel frattempo, assunse un consulente legale per argomentare il fatto che la High Line si trovava sulla mappa ufficiale solo per finalità informative”. (Robert Hammond)

Nel dicembre del 2001, dopo pochi mesi dal primo atto terroristico globale del 11 settembre e dopo un anno di lavoro sulla causa, la Corte Suprema emise un primo ordine sospensivo a carico dell’ordinanza di demolizione, in attesa dell’udienza prevista per il gennaio 2002. Il giorno seguente, com’era prevedibile, la città di New York si appellò, e il giudice dell’appello sospese l’ordine sospensivo. Anche la giustizia amministrativa di New York sa essere kafkiana.

“Allora, a pochi giorni dalla fine del mandato, l’amministrazione Giuliani sottoscrisse i documenti per la demolizione. Fu un grande passo indietro. Un nuovo sindaco non poteva semplicemente annullare un’ordinanza emessa dal sindaco precedente. (…) Era la prima volta che mi ritrovai a pensare ‘wow, guarda che arrivano i bulldozer’”. (Robert Hammond)

“Quando Robert mi disse che l’ordinanza era stata firmata, rimasi immobile al telefono pubblico del St. John. Ero arrivato alla High Line con un’idea semplicistica di come si sarebbe svolta la battaglia per salvarla: un sacco di urla e grida, e poi il noto incatenarsi alla cosa così un bulldozer non poteva demolirla. Una parte di me all’inizio pensava che così si sarebbe svolto il salvataggio della High Line. All’inizio Phil ci aveva aiutato a comprendere che le cose sarebbero andate diversamente. Ma io ho sempre temuto i bulldozer. Ogni volta che lasciavo la città, pensavo che la High Line sarebbe stata demolita mentre ero via”. (Joshua David).

Quando il sindaco Bloomberg e la sua amministrazione entrarono nel municipio di New York, nel 2002, gli Amici della High Line si trovarono nel pieno della loro battaglia per la legittimazione del processo, impegnati su più fronti: stava per uscire il libro Reclaiming the High Line edito da Design Trust, la causa che invocava l’Art. 78 stava proseguendo il suo corso, la Preservation League di New York aveva appena inserito  la High Line nella loro lista annuale delle sette opere da salvare (Seven to Save). Questo contribuì a mettere in buona luce la High Line presso le comunità locali. Se visitate il sito della Preservation League scoprirete che ha uno splendido sottotitolo: so our past has a future (così il nostro passato ha un futuro). Ecco qui la loro mission: “la Lega per la Conservazione dello Stato di New York investe in persone e progetti che primeggiano nel ruolo essenziale della conservazione e della rivitalizzazione delle comunità, nella crescita economica sostenibile e nella protezione dei nostri edifici e paesaggi storici. Guidiamo l’impegno cittadino, lo sviluppo economico e programmi educativi in tutto lo Stato”.

Finalmente nel mese di marzo 2002 la causa sull’Articolo 78 giunse ad una svolta positiva: i giudici avevano riconosciuto che c’era stato un errore di procedura nell’ordinanza di demolizione emessa dall’amministrazione comunale, dunque, senza un preventivo procedimento di modifica urbanistica, non sarebbe stato legale demolire la High Line. La piattaforma era salva.

“Non festeggiammo. Questo accadeva spesso. Più di una volta avremmo fatto altri grandi passi in avanti, ma ci sarebbe comunque stato molto altro da fare da non darci il tempo di fermarci per assaporare i nostri piccoli successi. Uno dei direttori per la raccolta fondi che cominciò a lavorare per noi in seguito, Diane Nixa, disse che il nostro era l’unico ufficio in cui avesse lavorato nel quale potevi pure ricevere una donazione di un milione di dollari e tutti avrebbero continuato a lavorare come se niente fosse.” (Robert Hammond)

Nell’aprile dello stesso anno l’ufficio del (nuovo) sindaco annunciò che avrebbe preso in considerazione il piano di fattibilità che gli Amici della High Line stavano elaborando (lo presenteranno a Dan Doctoroff in settembre) e incaricato la Turner Construction di valutare l’integrità strutturale della piattaforma.

Un anno dopo (aprile 2003) il percorso verso la realizzazione del parco nel cielo era ancora a mezza via. D’accordo, l’organizzazione Friends of the High Line poteva dormire sonni più tranquilli, non essendoci più il rischio che la piattaforma venisse demolita da un giorno all’altro, tuttavia, all’epoca del primo concorso di idee non c’erano ancora né autorizzazioni né soldi per la realizzazione. Solo alla fine dell’estate del 2003 (dopo la mostra alla Grand Central) il Consiglio Comunale annunciò che avrebbe stanziato circa il 25% dei costi allora previsti, pari a $15,75 milioni. Era finalmente un atto pubblico che riconosceva e consolidava la partnership tra Friends of the High Line e l’amministrazione Bloomberg.

Purtroppo, però, il rilascio del CITU (il certificato ad uso temporaneo a percorso verde) rimaneva ancora un miraggio, anche se si cominciavano a vedere i primi risultati del pressing di Nadler, Schumer e Clinton a Washington.

“La STB (l’agenzia federale dei trasporti) tenne un’udienza a New York City. Testimoniammo in coordinamento con la Città. Solo un anno prima  ci eravamo presentati a Dan Doctoroff. Adesso stavamo lavorando al suo fianco. Dopo l’udienza accompagnammo il direttore della STB, Roger Nober, in un tour lungo la High Line. Sembrò impressionato”. (Robert Hammond)

Per arrivare al rilascio del CITU occorrevano una variante di piano e l’acquisto della High Line da parte della città. Così, nell’autunno del 2003, cominciò il processo di revisione di piano per West Chelsea, con l’obbiettivo di arrivare ad un masterplan che avesse al centro proprio la High Line.

“Amanda (Burden) e il suo team, guidato da Vishaan Chakrabarti, si assunsero il compito di elaborare il sistema di trasferimento dei diritti (edificatori – Ndt) attorno alla High Line, ispirandosi ai meccanismi già messi in campo attorno alla Stazione Grand Central e al Theater District. Il sistema avrebbe permesso ai diritti edificatori inutilizzabili sopra la High Line di venire rivenduti a favore di altri siti disposti sopra e sotto la Decima e l’Undicesima avenue. (…) La speranza era che se avessimo trovato per i proprietari di Chelsea un altro modo per monetizzare i loro diritti edificatori, la loro opposizione alla High Line sarebbe svanita”. (Robert Hammond)

“La High Line era solo una delle forze che stavano ridisegnando la configurazione della zona. Avevi un gruppo che combatteva per tenere i nuovi edifici più bassi possibile, e un gruppo che spingeva per ottenere case a prezzo convenzionato. C’era anche un gruppo più piccolo che spingeva per garantire spazi urbani anche per il settore manifatturiero, non solo per le gallerie. (…) Non volevamo correre il rischio di attivare dinamiche nelle quali la High Line venisse percepita come fosse in competizione con questi altri interessi, altrettanto validi”. (Joshua David)

LA NUOVA VARIANTE DI PIANO PER WEST CHELSEA (IL DISTRETTO DELLA HIGH LINE)

Altro obbiettivo del nuovo piano sarebbe stato il mantenimento della mixité già presente nel distretto della High Line. Poiché i diritti edificatori avrebbero portato alla realizzazione anche di nuove abitazioni, con una conseguente gentrificazione di parti del distretto, il nuovo piano avrebbe impedito alle normali dinamiche di mercato (case nuove->affitti più alti->espulsione dei redditi più bassi dall’area) di allontanare un nascente distretto di gallerie d’arte a West Chelsea. Era già accaduto infatti che la gentrificazione del vicino quartiere di SoHo avesse costretto molte gallerie a spostarsi proprio a West Chelsea. Dunque il nuovo masterplan non avrebbe normato solamente la distribuzione dei metri cubi edificabili in quella parte di Manhattan, ma sarebbe anche intervenuto in tutela di una specifica funzione, forse più fragile delle altre attività dell’area, ovvero quella delle gallerie d’arte. Il team di Amanda Burden, con il supporto dell’organizzazione Friends of the High Line, recepì, in modo lungimirante, queste indicazioni, probabilmente emerse nel corso delle numerose occasioni di incontro e ascolto delle comunità locali.

Variante di piano per il distretto della High Line – particolare.

“Amanda e Vishaan proposero anche di regolamentare le nuove costruzioni vicino alla High Line, in modo da poter garantire sole, aria e visuali sulla High Line, nonché di regolare la possibilità di costruire scale e ascensori per la High Line senza il riparo di nuovi edifici.

Il nuovo regolamento avrebbe proibito di costruire sopra la High Line, per mantenere il parco aperto al cielo e preservare i coni visuali”. (Robert Hammond)

Riassumiamo quindi qui di seguito i principali obbiettivi di piano riguardanti la High Line:

  • negoziazione pubblico/privato, a proposito dei diritti edificatori, da spostare altrove, a garanzia della High Line
  • consolidamento/tutela, delle attività culturali e comunitarie esistenti, che animano l’intero distretto
  • limitazione alla costruzione, per garantire all’anomalo parco nel cielo di svolgere a pieno la sua funzione

L’amministrazione Bloomberg, con Dan Doctoroff, continuava a sostenere il progetto della High Line, e non solo con il finanziamento pubblico e la variante di piano. Infatti nel 2004, nei modi paradossali che spesso contraddistinguono gli affari delle pubbliche amministrazioni, la causa per la demolizione che vedeva contrapposta la città di New York e gli Amici della High Line arrivò ad un ulteriore punto di svolta.

Variante di piano per il distretto della High Line – particolare del trasferimento dei diritti edificatori.

“Agli inizi del 2004 il verdetto ottenuto a nostro favore contro la Città e grazie all’invocazione dell’Articolo 78, venne ribaltato. La Città di New York aveva ricorso in appello, più che altro perché non intendeva dar corso ad un precedente amministrativo che li avrebbe costretti a far precedere una variante di piano in casi simili a quello della demolizione della High Line. Noi, a nostra volta, ci appellammo al nuovo verdetto, arrivando di fronte alla Corte Suprema. Perdemmo l’appello, ma oramai non importava, poiché il Sindaco Bloomberg aveva cambiato le politiche della Città a favore della High Line, e noi stavamo lavorando spalla a spalla con il Municipio per portare avanti il progetto”. (Robert Hammond)

Con la spinta dell’amministrazione pubblica il progetto stava accelerando, e dal 2004 al 2009 si sarebbero anche concretizzate le responsabilità della gestione futura del parco. Mentre la città cambiava il masterplan di parte del West Side e la High Line si preparava a cambiare funzione (e aspetto), anche gli Amici della High Line avrebbero dovuto evolvere, preoccupandosi di trovare i fondi per gestire il parco e la sua peculiare manutenzione. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare altrove, la rigenerazione è più complessa della rifunzionalizzazione (come pure del recupero e della ristrutturazione). La componente ‘generativa’, dunque la parte meno edile e ingegneristica del processo, muta il DNA stesso dell’opera (o dell’area) in corso di rigenerazione, attivando le sue componenti comunitarie e civiche. Il processo di rigenerazione, oltre ad essere più complesso, è senz’altro più oneroso, anche se parte dei costi non sono direttamente monetizzabili (quanto vale il lavoro svolto dai volontari per il mantenimento della High Line? Qual è il valore economico del sostegno degli associati a Friends of the High Line nel corso dei primi dieci anni di vita del’organizzazione?). Tuttavia, se potessimo sommare tutti i guadagni del processo di rigenerazione (non solo quelli monetizzabili), scopriremmo che sul medio-lungo periodo essi risultano maggiori di quelli ottenuti (in periodi, però, più brevi) dai processi strenuamente edili (ristrutturazione) o urbanistici (recupero). La rigenerazione è dunque più simile ad un investimento piuttosto che ad un rammendo: crea un tessuto nuovo, non mette toppe.

Agli inizi del 2004, poco prima del lancio della request for qualifications per selezionare il team che si sarebbe occupato del design del parco, le pedine del domino erano già in movimento in un’unica direzione.

“Prima di tutto la Città avrebbe modificato il piano urbanistico del vicinato, che avrebbe così permesso ai proprietari di immobili sotto la High Line di recuperare in altri modi il valore dei loro diritti edificatori. Una volta attuato il nuovo piano, i proprietari avrebbero smesso di opporsi alla realizzazione del parco. Senza la loro opposizione, l’STB avrebbe rilasciato un CITU (il certificato ad uso temporaneo a percorso, n.d.t.), e la CSX avrebbe così potuto donare la High Line alla Città di New York, permettendo che venisse attuato il ‘railbanking’. A quel punto la struttura sarebbe diventata proprietà della Città, in gestione all’Assessorato dei Parchi. Solo allora la Città avrebbe potuto investire fondi pubblici sul progetto del parco sulla High Line (…)”. (Robert Hammond)

“Lavorammo con il deputato Nadler per garantirci dei finanziamenti federali che avremmo potuto usare per anticipare la parcella del contratto di design prima del passaggio di proprietà alla Città, così che quando la High Line avrebbe cambiato mano, il progetto sarebbe già stato pronto e la Città avrebbe potuto cominciare immediatamente la realizzazione del parco.” (Joshua David)

Alla fine, a metà del 2005, l’adozione del nuovo masterplan era nel pieno delle trattative. Christine Quinn e l’assessorato all’urbanistica lavorarono per accordarsi con i proprietari, e alla fine questi ultimi si convinsero della bontà del nuovo piano.

“I proprietari immobiliari inviarono all’STB la richiesta di archiviare le loro obiezioni di vecchia data contro la High Line. Questo rimosse l’ultimo ostacolo al railbanking. Il 13 giugno (2005), appena due giorni prima del consiglio comunale (che avrebbe approvato ufficialmente il nuovo zoning – Ndt), ricevemmo la notizia che l’STB aveva approvato la richiesta della Città per il rilascio del certificato ad uso temporaneo a percorso verde per la High Line (il tanto agognato CITU – Ndt)”. (Robert Hammond)

Grazie al CITU la proprietaria, la CSX Transportation, poté negoziare con la Città di New York un accordo ufficiale per consentire un uso a parco della piattaforma, e poter quindi permettere al pubblico di accedere alla High Line. Non sarebbero più stati necessari tour con passaggi fortuiti ‘sotto la recinzione’.

GLI AMICI DELLA HIGH LINE DIVENTANO UN’ISTITUZIONE LOCALE

L’ultimo passo, l’ennesimo salto nel buio per l’esperienza degli Amici della High Line, avvenne una sera di maggio 2009, a circa un mese dall’inaugurazione delle prime due sezioni (che avvenne il 3 giugno 2009). Circa tre anni prima Friends of the High Line aveva fatto richiesta all’assessorato per il verde pubblico (Parks Department) di poter gestire il parco della High Line. Non era un atto automatico, infatti, nonostante gli Amici avessero raccolto quasi $ 24 milioni sui $ 153 milioni spesi per la realizzazione del parco, ufficialmente non avevano alcuna esperienza in merito alla gestione di un parco. Inoltre avevano portato la città di New York a spendere $ 112 milioni di denaro pubblico su di un parco che doveva ancora dimostrare il suo potenziale, soprattutto in termini di ritorno economico (anche se già erano stati aperti numerosi cantieri di progetti di architetti di fama mondiale proprio grazie alla High Line). Per vincere le ritrosie della pubblica amministrazione, Donald Pels e Wendy Keys, una coppia di sostenitori privati, lanciarono una gara di donazioni (una gift challenge simile a quella promossa da Diane von Furstenberg e Barry Diller) per $ 3 milioni, con la condizione aggiuntiva di ottenere la convenzione per la gestione completa del nuovo parco. In sostanza Don e Wendy stavano dicendo alla pubblica amministrazione che solo Friends of the High Line avrebbero continuato a ricevere il sostegno dei benestanti newyorkesi, grazie a donazioni e cene di beneficenza.

Così, in quella sera di maggio del 2009, il consiglio direttivo degli Amici della High Line aveva un appuntamento cruciale al nuovo Standard Hotel, uno dei primi edifici costruiti sulla High Line, con il rappresentante del Parks Department: la convenzione era finalmente pronta per essere siglata!

Lo Standard Hotel, primo edificio sulla High Line (foto di Enrico Lain 2013)

“Seduti attorno al lungo e scintillante tavolo nella sala riunioni dello Standard, che godeva di una panoramica sulla High Line attraverso una parete di vetro, siglammo la nostra nuova ufficiale partnership con la Cittò di New York e il Parks Department. La convenzione era completa; ci erano voluti tre anni per completarla. Quando la High Line venne aperta al pubblico qualche settimana più tardi, gli Amici della High Line sarebbero stati i primi gestori di un parco pubblico nella Città di New York ad essere anche il gruppo che aveva attivato e sostenuto la creazione del parco, nonché l’organizzazione che avrebbe seguito il parco fin dal primo giorno di apertura.

Adrian Benepe, il commissario dell’assessorato, parlò seriamente della responsabilità che ci stavamo assumendo. Sapeva meglio di chiunque altro quali fossero le sfide nella gestione di un parco pubblico. Questo portò ad una discussione a proposito di un possibile affollamento sulla High Line. Non avevamo idea di quante persone sarebbero arrivate. Non c’era nessun modo concreto di predirlo. Ma lo sentivamo nell’aria: la città era eccitata”. (Joshua David)

Secondo il New York Times, in un articolo del 26 settembre 2017, annualmente la High Line è percorsa da circa sette milioni di visitatori. Come abbiamo visto, i costi per gestire questa attrazione ammontano a circa $ 4,5 milioni all’anno, ma non è l’unico peso sulle spalle degli Amici della High Line. Infatti l’organizzazione non profit newyorkese sta mutando ancora le proprie finalità, forse cedendo alle spinte politiche dell’attuale sindaco de Blasio. Diversamente da Bloomberg, de Blasio è un democratico, fortemente interessato alla ridistribuzione della ricchezza nella città di New York. Nei confronti di un’opera che potrebbe apparire un investimento di soldi pubblici per interessi principalmente privati (quelli dei grossi developer immobiliari) l’atteggiamento di de Blasio è quantomeno  sospettoso. La città di New York ha fatto capire a Friends of the High Line che non poteva limitarsi a gestire il parco e a trovare, ogni anno, i soldi per farlo. Occorreva intervenire oltre il proprio distretto, con azioni dirette anche ad altre comunità. E così, come riporta l’articolo del Times:

“nel 2015 il gruppo ha donato $ 1,5 milioni per far crescere alcuni giardini di comunità nel Bronx, rispondendo ad una specifica richiesta del Municipio, parte dello sforzo dell’amministrazione de Blasio per spingere le conservancy più ricche ad assistere le aree più disagiate”. (J. David Goodman)

Come ha bene inteso Richard Florida, grazie al reale impatto sulla città gli Amici della High Line sono diventati a tutti gli effetti una delle anchor institution locali, che il sito Democracy Collaborative definisce come “imprese che, come le università e gli ospedali, sono radicate nelle comunità locali per mission, per capitali investiti, o per le relazioni con clienti, impiegati e commercianti. In quanto entità locali che controllano vaste risorse economiche, umane, intellettuali e istituzionali, le anchor institutions hanno il potenziale per portare benefici cruciali e misurabili alle famiglie, ai figli e alle comunità locali (da democracycollaborative.org)”.

Tutta questa responsabilità nei confronti delle comunità locali non ha certo spaventato i due (ex)ragazzi con un logo. E’ solo una nuova sfida, da affrontare con strumenti adeguati e dunque vale la pena di dedicarvi un intero post, il prossimo…

Condividi

Altri articoli

Condividi