La risposta breve è: sì, a patto di decostruire alcuni termini che spesso ci riportano a schemi di pensiero già percorsi, a porti sicuri e stabili, mentre abbiamo indubbiamente bisogno di tornare ad esplorare il possibile. Tutto nasce in occasione di un panel organizzato per la sezione progetti speciali del Padiglione Italia alla 17ma Biennale di Venezia, a cui sono stato invitato come relatore. Il titolo del panel, tenutosi il 3 giugno scorso, era “Il diritto alle città”, e con me c’erano altri architetti, futurologi, ricercatori, curatori e docenti di diritto, in un grande assemblaggio che aveva davvero un buon potenziale. Da ricercatore indipendente e (molto) indisciplinato ho preferito contribuire alla discussione problematizzando le questioni.
Ecco la mia folle idea per il panel: mettere in discussione alcuni termini sotto i quali tendenzialmente ci rifugiamo ogni volta che vogliamo riportare ad un ordine riconosciuto eventuali esplorazioni fuori recinto disciplinare. Se riuscissimo a smontare pezzo per pezzo alcuni di questi termini, con un sano dubbio scientifico, avremmo forse fatto il primo importantissimo passo verso la costruzione di discipline resilienti.
Parole di uso comune, come progresso, città, natura, progetto e rigenerazione, spesso nascondono stratificazioni e incrostazioni di teorie obsolete, di fissità che andrebbero ripulite, come si farebbe di fronte ad una ferita aperta per evitare la setticemia. Per questa convinzione e spinto dagli stimoli e dalle provocazioni allestiti nel Padiglione Italia per Comunità Resilienti, mi è stato impossibile resistere al tentativo di decostruire proprio questi termini simbolici. Ho cercato quindi di riportare l’attenzione sulla realtà che si cela oltre le figure idealizzate della città e del progresso, sottolineando che questo sforzo esplorativo è, di fatto, una sorta di obbligo morale per ogni progetto.
La parola più difficile da smontare e mettere in soffitta è probabilmente PROGRESSO. Il progresso ha la malaugurata tendenza a promettere una certa unità di direzione del tempo. La modernità ha prodotto la quasi totalità delle attuali urbanizzazioni del pianeta, legando in un unico destino l’idea di modernizzazione, quella di progresso e quella di progetto. E’ un’idea molto semplice, moderna e ancora potentissima: attraverso architetture evolute (per estetica e tecnica costruttiva) è possibile determinare la realizzazione di società altrettanto evolute. Questa correlazione è completamente indimostrabile, basti pensare al fatto che solitamente le architetture più evolute determinano il fenomeno anti-democratico della gentrificazione, che causa quasi sempre la creazione di quartieri divisi per reddito. Le città con meno divisioni interne (per reddito o per etnia) funzionano solitamente meglio, con meno costi di gestione, con meno fenomeni di criminalità e con una dinamicità sociale che alimenta il sistema educativo e la creatività urbana, e quindi la sua resilienza. Il refrain di un’architettura capace, da sola, di cambiare le sorti di un’intera società sembra essere quindi utile solo per vendere ottimi concept architettonici e urbani. Purtroppo, il progresso non è mai stato un fenomeno lineare, e ogni interpolazione dei suoi risultati in un’unica linea evolutiva è quantomeno grossolana, spesso fuorviante. Vi inviterei a leggere “Breve Storia della Vita Privata” di Bill Bryson per capire come le nostre case, con i loro confort, siano l’esito quasi inaspettato di casi fortuiti, di azzardi fatti da personalità eccentriche, di spionaggio industriale, di vessazioni e di sperimentazioni. Nulla a che vedere con quello che i più convinti sostenitori del progresso hanno cercato di teorizzare e descrivere. Aggiungerei poi che interpretare il progresso come analogo artificiale dell’evoluzione è un’ulteriore semplificazione narrativa, atta a nascondere dietro ad un racconto autoreferenziale le difformità, le fratture, gli imprevisti, le anomalie. Il progresso, detto in altro modo, tende ad unificare le prospettive, ad appiattire la pluralità delle progettualità in nome di una serena e autoreferente realizzazione di un unico futuro. Come ci ricorda Anna Tsing nel suo “Mushroom At The End Of The World”:
“il progresso è una marcia in avanti, che assorbe ogni altra temporalità nel proprio ritmo. Senza quel ritmo che ci guida, potremmo notare altri pattern temporali. Ciascuna entità vivente rimodella il mondo attraverso impulsi di crescita stagionali, pattern riproduttivi e geografie di espansione. Se considerassimo alcune altre specie ci accorgeremmo che ci sono molteplici progetti di costruzione di altre temporalità (…). Raccomando quindi quella curiosità che ci permetterebbe di seguire queste temporalità multiple, rivitalizzando la descrizione e l’immaginazione.”
Affidarci al progresso implica pertanto perdere coscienza della realtà, sia dal punto di vista descrittivo che da quello progettuale. La storiografia e l’epistemologia hanno già compiuto, negli scorsi decenni, il proprio transito disciplinare al di fuori di questa visione idealista e illuminista di un tempo unico e lineare. Nonostante la spietata analisi dei rapporti tra progresso e propaganda data da Eric Voegelin nel secondo dopoguerra, le prassi più progettuali (incluse le scienze politiche) sembrano tuttavia ancora preferire la tranquillità di un realismo capitalista all’instabilità reale della realtà. Se guardassimo infine al neoliberismo senza gli occhiali del progresso molto probabilmente non ci piacerebbe quello che vedremmo. Tuttavia rimango convinto che la soluzione non sia davvero una rivoluzione, come auspica Harvey, né in senso sociale e politico né in quello tecnico e costruttivo (penso che le tecnologie di smartizzazione presentino vaste problematiche di sovranità digitale, ad esempio). Quando vedo progetti come quello delle città galleggianti di Oceanix, in cui ritroviamo ancora edifici con funzioni commerciali e artigianali al piano terra, penso che non si tratti di progetti davvero rivoluzionari. Recentemente Alejandro Aravena ha affermato che “noi non siamo consulenti, noi siamo autori… questo significa assumersi i rischi di ciò che proponiamo”. Aggiungo poi un detto di Stravinskij che adoro: “ogni rivoluzione, per definizione, torna al punto di partenza”. E quindi come potremmo raggiungere la nostra velocità di fuga dal circolo vizioso imposto dal capitale globale?
A quanto pare, non possiamo più affidarci a quell’orizzonte universale che è (stato) il progresso. E’ tutto sempre più confuso e instabile. Il velo idealtipico del progresso si sta sfrangiando, lasciandoci intravedere le contraddizioni (teoriche e pratiche) di ciò che è stato, e mostrandoci l’inizio di un percorso necessario, ma per il quale non esiste una meta prestabilita, poiché i normali processi predittivi e progettuali che abbiamo a disposizione non sono (più) in grado di operare con un’adeguata affidabilità.
Non ho le competenze per fare ipotesi sul futuro, ma sono convinto che il primo passo sia quello che Alessandro Melis e Benedetta Medas hanno indicato in un loro breve articolo, pubblicato nel 2019 sulla rivista dell’Ordine degli Architetti di Padova, in cui evidenziavano:
“(…) la necessità di superare l’impasse culturale attraverso una stimolazione della visionarietà radicale delle future generazioni di architetti.”
Se l’impasse culturale nasce dalle responsabilità che la progettazione architettonica e la pianificazione hanno in qualità di attori primari nella crisi globale (lo ha scritto anche Bernardo Secchi, nel suo “La città dei ricchi e la città dei poveri”, il suo ultimo pamphlet di qualche anno fa) è ancor più evidente che la “crisi globale” non è solo quella economica, e, forse, non è nemmeno solo quella climatica o quella pandemica. Da designer, infatti, credo che la crisi si percepisca soprattutto nella nostra incapacità di immaginare un futuro, che dovrà essere molto più collettivo del nostro presente.
Se Harvey, da buon filosofo marxista, riteneva che Lefebvre non avesse creduto a sufficienza in una possibile rivoluzione urbana, noi potremmo dire, nove anni dopo “Rebel Cities”, che quanto ci manca oggi è una riscrittura del kernel della nostra professione, perché se la crisi globale dipende dall’asimmetria economica e politica, l’antidoto è quello di uscire dalla empasse culturale del neoliberismo grazie a un salto quantico nella visionarietà di noi progettisti. Detto per inciso: è davvero un percorso difficile, ed è molto probabile che solo le future generazioni di architetti riusciranno a percorrerlo (a parte, ovviamente, le best practice che il Padiglione Italia ha raccolto in questo allestimento). Aggiungo: anche se la forma è quanto ci resta dopo aver decostruito le morfologie, le economie e i sistemi significanti, essa purtroppo non potrà essere il fine unico del processo di design.
Dopo aver tentato di decostruire la nostra incrollabile fiducia nel progresso, il secondo punto che vorrei proporvi è ancora più basilare: l’idea di CITTA’ è diventata fin troppo simbolica, un catalizzatore di materie indistinte, poiché raccoglie tutto ciò che il paesaggio urbano, così domestico, offre all’uomo. Spesso il termine “città” indica quindi un sistema non ben definito, ma che riteniamo univocamente funzionante, a volte come un metabolismo, altre volte come un quadro ben composto, altre come un meccanismo un cui tutte le componenti risultano sufficientemente coese. Rimane comunque, sul fondo, il sottile convincimento che il diritto, le norme, i regolamenti e i piani garantiscano una certa unità (in termini di forme e finalità) a questo palinsesto urbano. Credo che dovremo sforzarci di mettere in soffitta anche questa convinzione, soprattutto di fronte all’emergere di forme di auto organizzazione informale (presenti nelle periferie più popolose). In questo Lefebvre è stato molto chiaro, sostenendo che le città sono in realtà delle pluralità di sistemi, difficilmente riconducibili ad unico sistema di significati. Dovremmo smettere quindi di confezionare identità e metafore (come quella del tessuto e del rammendo) poiché esse continueranno a portarci irrimediabilmente verso la vecchia strada, quella in cui non esistevano preoccupazioni di sorta.
Sulla questione della NATURA, che sottende e vigila idealmente ad ogni processo di rinaturalizzazione, ritengo indispensabile operare una decostruzione idealtipica, come il contesto dell’Antropocene richiede. Accompagnato fedelmente da due testi, FACING GAIA di Bruno Latour e THE NEW SCIENCE OF POLITICS di Eric Voegelin, propongo di rivedere il concetto di Natura al di là della nostra idea che essa sia sistemica, funzionale, ciclica e sostanzialmente de-animata. Voegelin ha mostrato come sia stata la corrente gnostica, percolata fino all’illuminismo, a condurci ad una visione sostanzialmente deanimata della Natura, per tradurla, in sistema normativo e di diritto. Detto in altri termini, pensare alla Natura come altro da noi ci permette al contempo di normarne a piacimento forme, significati e valori, ma anche di invocarla come unità universale e indiscutibile (da cui trarre “leggi di Natura” a garanzia dello stato di diritto). Mettere in discussione questo nostro modo di leggere la Natura significherebbe quindi mettere in discussione i concetti di nomos di Schmitt e di cura di Heidegger, significherebbe una totale e tragica assunzione di responsabilità da parte dell’umano, finalmente senza le reti di protezione di una qualsiasi forma di metafisica. Vedremo così, senza alcun gioco di specchi, di cosa siamo stati capaci, senza poterci più illudere che la filosofia possa essere usata per lenire il nostro senso di colpa in quanto specie.
Possiamo fingere di essere gli unici ad avere capacità di linguaggio e di significazione, ma purtroppo non è più così. Anzi, secondo alcuni, l’idea stessa che il campo delle nostre attività umane sia caratterizzato da una netta divisione tra soggetti animati e liberi da un lato e oggetti de-animati, non significanti e sottoposti all’azione altrui dall’altro, è una pericolosa semplificazione del mondo.
Come scrive Latour:
“In altre parole, esistenza e significazione sono sinonimi. Più a lungo gli agenti agiscono, più a lungo essi significano. Questa è la ragione per cui la loro significazione può essere seguita, inseguita, catturata, tradotta, formulata in linguaggio. Il che non significa che ‘ogni cosa nel mondo è semplicemente una questione di discorso’ ma, piuttosto, che ogni possibilità di discorso è data grazie alla presenza di agenti alla faticosa ricerca di esistere. Anche se la filosofia della scienza, ufficialmente, afferma che solo il processo di de-animazione è importante perché razionale, è vero il contrario: l’animazione è il fenomeno essenziale; e quello di de-animazione è quello superficiale, ausiliario, polemico, e spesso il fenomeno più difensivo.”
Credo siano queste le ragioni che mi hanno spinto qualche anno fa ad interessarmi dei processi partecipati. Se Alessandro Melis, da buon accademico e attivista civico, vede la necessità di una revisione dell’insegnamento, io, da professional, ritengo che, in certe condizioni, esistano già prassi consolidate per moltiplicare le opzioni possibili, soprattutto in campo progettuale, e che dovranno essere sempre più applicate nella pianificazione urbana. Leggo in tal senso l’etichetta-ombrello di “resilient comunities” affidata al Padiglione Italia. Poiché la cessione di potere e la condivisione delle responsabilità anche progettuali sono facce della stessa medaglia.
Per tutte queste ragioni, che ho raccolto consapevolmente in maniera spuria, credo che il DIRITTO ALLA CITTA’ e la possibilità di realizzare eterotopie critiche all’interno delle nostre conurbazioni passino per una cessione di AGENCY alle comunità di residenti. Al di là delle specifiche metodologie di partecipazione (che potremmo suddividere funzionalmente in “strategie di ascolto”, “processi di co-ideazione e co-progettazione” e “strategie di visioning collettivo”), che vanno composte a seconda del risultato ricercato, la cessione di agency alle comunità va compresa nel dettaglio. Non si tratta infatti di una delega di responsabilità o di competenze, quanto di un allargamento della platea di riflessione progettuale. Se davvero le conurbazioni sono frammenti di sistemi, di ipotesi, di errori e di mescolanze di diritti pubblici e privati, allora tale complessità sarà gestita in modo più efficiente da un’istituzione di complessità pari o superiore (questo, se non sbaglio, recita il principio di varietà necessaria di Ashby, citato da Turner nel suo vecchio “Abitare autogestito”).
Se l’allargamento dell’agency alle comunità è in grado di moltiplicare le opzioni progettuali possibili, è altrettanto vero che i processi partecipati sono in grado di formare comunità, che, in fase d’opera, si attivano anche in curve di apprendimento collettive. Detto in altre parole: la progettazione condivisa è un processo bidirezionale, sia per la comunità che per i progettisti coinvolti. L’obiettivo, per citare Latour, è quello di giungere ad un possibile cosmo, dunque ad un ordine inclusivo e condiviso.
Chiudo queste mie riflessioni sparse con l’ulteriore problematizzazione del concetto di RIGENERAZIONE URBANA. A conclusione del panel del 3 giugno, qualcuno ha suggerito di abbandonare il termine RIGENERAZIONE e di parlare piuttosto di CURA, sostenendo che forse c’è fin troppa arroganza nel sostenere che l’uomo sia capace di “rigenerare” alcunché. Questa chiosa non mi ha trovato d’accordo, anche se purtroppo non c’è stato il tempo di aprire una discussione sulla cosa. Cerco quindi di riportare qui le ragioni del mio punto di vista.
Innanzitutto non credo che l’umanità si sia mai dimostrata capace di avere davvero cura del mondo, al punto che non ritengo la CURA meno impegnativa della RIGENERAZIONE. Poi, di fronte alla mescolanza di scale e paradigmi scatenata dall’Antropocene nell’episteme contemporaneo, non credo che esista più una sostanziale distanza tra un soggetto agente (che cura) e un oggetto agito (che riceve cura). Se ancora fosse, allora non avremmo davvero alcun obbligo morale verso un mondo di oggetti da curare, saremmo ancora nell’ambito di una libera scelta: essere buoni e avere cura oppure essere incoscienti e infischiarsene? La nozione di cura celerebbe così ancora un’implicita differenza culturale tra un’élite consapevole e colta che decide di avere cura del mondo e una popolosa moltitudine di inetti che se ne infischia. Credo sia questo implicito elitarismo a rendermi indigesto il concetto di cura. Al contrario la rigenerazione si presenta come un valido antidoto comunitario all’elitarismo della cura: è un termine tra l’ospedaliero (rigenerazione dei tessuti), il fantascientifico e l’ingegneria sociale. Nonostante i suoi caratteri semantici spuri, ri-generare implica comunque un’assunzione di responsabilità diffusa (tutti noi, in quanto viventi, abbiamo l’implicita capacità di generare, e questa caratteristica ci accomuna tutti, umani e non-umani). Inoltre ci consente di abbandonare quel sostenuto distacco elitario che accompagnava l’avere cura, per entrare davvero in contatto con un mondo tangibile e concreto, non con un Essere heideggeriano che non è più qui. Grazie a questa compresenza (tutti siamo nel mondo, tutti siamo il mondo) ogni tentativo di ri-generazione implica anche un apprendimento, una forma nuova di conoscenza, un nuovo realismo (Latour, Down To Earth). Perché mentre l’aver cura è un atto solitario e distaccato, la ri-generazione è un compito collettivo e ad elevata intensità di interazione e partecipazione, “perché gli agenti, gli esseri animati, gli attori (…) hanno tutti le proprie traiettorie e i propri interessi” (Down To Earth).