All’inizio dell’autunno 2020 ho avuto il privilegio di incontrare Alessandro Melis e Andrea Bartoli, qui a Padova, e di passare una serata a discutere con loro (anche) di innovazione. Ad essere sinceri, Andrea non si limita a parlare di innovazione: molto più semplicemente il suo intero DNA è diretto all’innovazione, allo stato più puro e travolgente. Con Alessandro, poi, la discussione ha dilagato, e credo che se non ci avessero trascinato fuori dal locale probabilmente avremmo fatto mattina. Come spesso accade quando ci si trova di fronte ad una persona che stimiamo, ho voluto porre a Melis una questione che mi girava in testa da tempo, ma alla quale temevo non ci fosse risposta. Così gli ho chiesto come riusciremo a tenere insieme la sperimentazione (con il correlato di errori e di apprendimento) e il progetto, che sembra invece avere la necessità di stabilire, fissare, consolidare il conosciuto. Alessandro non poteva ancora dirci nulla del Padiglione Italia, ma sembrava molto fiducioso del fatto che la forma potesse essere il principale “portale” tra le due dimensioni del determinato e dell’indeterminato (anche attraverso forme di cooptazione funzionale). Ma, aggiunsi io, per permettere alla forma di divenire un operatore invece di essere l’esito di un processo compositivo occorrerebbe trasformare quasi tutto il contesto: le discipline, i processi, i designer stessi… Non ne parlammo più, direttamente, ma continuai a lavorarci su, in privato. Ecco qui di seguito il percorso che ho immaginato, ipotizzando alcune tappe che possano, forse, riprogrammare la nostra disciplina per le sfide del futuro prossimo.
Nel 1951, all’Università di Chicago, nella sua lezione The End of Modernity[i], il filosofo e politologo tedesco Eric Voegelin cercò di analizzare le ragioni che avevano portato le civiltà europee all’istituzione dei totalitarismi emersi tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Secondo Voegelin si trattava di processi derivanti dallo gnosticismo illuminista e aventi una finalità filosofica comune: l’espulsione dell’incertezza dal mondo. I totalitarismi si presentavano dunque come la soluzione politica all’indeterminato filosofico e come realizzazioni dell’utopia, mentre, sottotraccia, depotenziavano l’aspetto teleologico del progresso. In nome di una perfezione finale in cui era determinante la componente normativa, anche il progresso veniva trasformato in ideologia. Voegelin definì questo processo come immanentizzazione. Esso implica che il mondo non possa essere soggetto ad alcun sostanziale cambiamento in futuro, in quanto l’utopia è già perfettamente realizzata nel tempo presente. Secondo questo modo di vedere la realtà, la natura è inerte, de-animata e dunque completamente prevedibile, ridotta a un meccanismo composto di elementi dotati di massa e movimento ma assolutamente privi di iniziativa o anima.
Questo particolare modo di vedere il mondo ha continuato a persistere anche dopo la fine dei totalitarismi storici, portando ancora oggi alla distorsione del nostro contatto con la realtà, che viene sostituita con quello che Voegelin definisce dream world. Nel “mondo del sogno” l’obiettivo comune è il mantenimento di uno status quo invariabile, distaccato da una realtà che invece continua a mutare. Scrive Voegelin che “l’ossessione per la sostituzione del mondo della realtà con un mondo trasfigurato del sogno è divenuta l’ossessione di un mondo in cui i sognatori adottano il vocabolario della realtà, mentre ne cambiano il significato, come se il sogno fosse realtà”.
A più di sessant’anni di distanza le riflessioni politiche e filosofiche di Voegelin vengono riprese dal filosofo e antropologo francese Bruno Latour (2017), nel suo Facing Gaia – Eight Lectures On The New Climatic Regime. L’autore cerca di rispondere ad un interrogativo urgente: per quali ragioni, di fronte all’instabilità e ai mutamenti che accompagnano il nuovo regime climatico e l’Antropocene[ii], gli umani non (re)agiscono? Perché invece preferiscono additare i climatologi come incompetenti ed esprimere pubblicamente l’opinione che le loro teorie siano quantomeno incomplete? Secondo l’antropologo francese il distacco dalla realtà descritto da Voegelin è una delle cause di questa pericolosa disaffezione nei confronti del futuro del pianeta. Purtroppo, come conclude Latour nel suo successivo Down to Earth (2018), prima prenderemo coscienza della realtà, uscendo dal dream world e tornando ad essere terrestri, e prima riusciremo ad agire assieme agli altri agenti che abitano la Terra.
Da questa azione collettiva potrà forse emergere un possibile ordine che tenga conto delle esigenze di tutti noi residenti sul pianeta, umani e non-umani. Estendendo il paradigma della sua teoria sociale più nota, la Actor Network Theory (nota come A.N.T.), e avvicinandolo all’ipotesi di Gaia dell’ingegnere James Lovelock, Latour suggerisce come superare l’ottusità dello gnosticismo occidentale descritto da Voegelin: si tratta di considerare la Natura come un sistema complesso e in continuo cambiamento, agito e agitato dagli innumerevoli agenti che abitano il mondo, ciascuno con le proprie finalità. Dovremo quindi avere bene in mente che, ad esempio, i batteri, le piante e gli animali sono dotati di agency, cioè della capacità di modificare autonomamente il proprio ecosistema. Da queste innumerevoli interazioni e modifiche locali della superficie del pianeta, tutte con dimensioni e durate variabili, emerge di volta in volta uno stato transitorio della Natura. Non si tratta tuttavia di una lettura filosofica della realtà, ma di un dato scientifico: il sottile biofilm, spesso qualche chilometro e che avvolge il nostro pianeta garantendone il raffrescamento rispetto all’azione solare, si è dimostrato sensibile e variabile di fronte all’azione umana. La storia e la geostoria (e le loro scale temporali e spaziali) sono divenute indistinguibili.
Quando Latour propone di sostituire l’idea illuminista di una Natura stabile con l’imprevedibile variabilità di Gaia, pone quelle discipline che hanno un rapporto più stretto con la realtà di fronte alla necessità di attuare uno straordinario cambio di paradigma. Anche l’architettura è soggetta a questa trasfigurazione, sia all’interno della disciplina che nei processi delle sue prassi. Se la nostra abilità progettuale si era specializzata in concatenamenti causali di breve periodo e riguardanti lo spazio (o un tempo spazializzato, attraverso categorie storiografiche e tipologiche), il nuovo regime climatico ne ha cambiato radicalmente i paradigmi di riferimento, mostrandoci un vertiginoso e repentino salto di scala tra le cause i loro effetti. Ha poi riportato violentemente in campo progettuale la categoria del tempo: gli effetti dell’antropizzazione hanno durate che superano la percezione del singolo individuo[iii], e, pertanto, possono essere percepite solo collettivamente, come specie.
Un’agency diffusa sottende poi una certa viscosità: gli attori in gioco (cause, effetti, soggetti, oggetti, elementi, materie, ecosistemi, ecc…) si muovono collettivamente, non più distinguibili per singoli elementi. Ne emerge così una realtà caratterizzata dall’indeterminato, nella quale le variabili sono innumerevoli, di gran lunga più numerose delle invarianti. L’architettura è in grado di tenere in considerazione questo nuovo tipo di realtà? Purtroppo oggi essa sembra ancora troppo legata alla reiterazione di una visione stabile del mondo e con una ridotta capacità di immaginare un altro mondo, una lettura in gran parte permeata da quel realismo capitalista[iv] che influenza la nostra stessa capacità di immaginare un’alternativa allo status quo. La moltitudine di istanze che l’architettura non ha potuto finora accogliere, registrare e ri-comporre, rinunciando alla composizione del molteplice a favore della salvaguardia del proprio apparato concettuale, ha assemblato, in secoli, un cumulo di detriti, di scarti, di ibridi e di insuccessi che ci ostiniamo a non prendere in considerazione. Se davvero l’architettura intende essere una forma di un processo di autocoscienza degli uomini[v], dovremmo chiederci di cosa possiamo realmente avere coscienza se non analizziamo anche le opere fallimentari che ingombrano il pianeta. Le periferie sono il grande archivio dimenticato della nostra civiltà, il luogo del rimosso, deposito degli insuccessi della disciplina dell’architettura, il suo “terzo paesaggio” indisciplinato. Questo rimosso[vi] ci incalza, tutto è periferia, e la disciplina dell’architettura mostra ampie fratture e conflittualità interne che purtroppo non sembrano completamente risolvibili all’interno della disciplina. Abbiamo bisogno quindi di altri punti di vista e di ritrovare, grazie ad essi, un rinnovato rapporto con la realtà. Per questo dovremo accogliere le sfide che provengono proprio dall’indisciplinato, perché anche le discipline tendono a distorcere la realtà. Ricordiamo le parole di Foucault, secondo il quale i sistemi disciplinari sono emanazione di un “potere (che) produce; produce il reale; produce campi e oggetti e rituali di verità.[vii]” Comprendiamo così che la nostra fiducia nelle discipline dovrà essere oggetto di nuovi accordi se vogliamo tentare una ricomposizione del mondo. Questa è, secondo noi, la vera sfida che spetta all’architettura: tornare sulla terra, agente tra gli agenti, dotata della capacità di immaginare un futuro collettivo, e dunque di progettarlo. Ma occorrerà prima di tutto prendere consapevolezza degli errori commessi, e sarà una consapevolezza territorializzata e indisciplinata, perché occorreranno sperimentazioni locali, estreme, guidate da un pensiero associativo, senza concessioni ad uno sguardo universale né tantomeno globale, in quanto sappiamo che quel percorso[viii] ci ha già portato fin troppo lontano dal nostro nuovo obiettivo di un futuro comune.
Oltre il fragile muro che protegge la disciplina da questi nuovi barbari assedianti e provenienti dalla periferia del globo, vediamo procedere verso di noi tre mostruosità che fatichiamo ancora a comprendere: la scala planetaria degli Iperoggetti[ix], la fine della Realtà[x] come dato di fatto e, l’abbiamo già presentata, una Natura concettualmente instabile e non più disposta ad essere oggetto inanimato a disposizione dell’uomo. Come è possibile stabilire una utilità in un mondo in cui il rapporto di subordinazione tra soggetti e (iper)oggetti è sempre più flebile? Come garantire la solidità di una costruzione in un mondo per il quale lo stesso concetto di Realtà è messo in discussione? Come affidarsi, infine, alla bellezza come risultato più elevato dell’agency umana, in un momento in cui la Natura sfida le nostre poetiche animandosi e dotandosi di agency a sua volta? Queste fratture nell’organizzazione teorica della disciplina ci spingono a interrogarci su quale percorso auspicare per l’architettura perché si possa, poi, affidarle il compito di esplorare il possibile, usando rinnovati strumenti progettuali e compositivi, per dare forma ad un futuro dominato dall’indeterminato e dall’incertezza. Chiameremo qui, provvisoriamente, “Novacene” l’archivio indisciplinato e non categorizzato che raccoglie le tracce di questo percorso, con i suoi tentativi di ricomporre gli immaginari e le scienze in una possibile descrizione del futuro prossimo. Nel Novacene ritroveremo esperimenti fallimentari, progetti irrealizzabili, narrazioni futuristiche, critiche radicali al tempo presente. Il Novacene, per noi, sarà la raccolta delle mirabilia visibili e invisibili[xi] che attendono di entrare nel possibile ordine futuro del mondo.
Da dove iniziare, allora? E, soprattutto, in che direzione procedere?
Partiamo da una fine, solo apparentemente ipotetica: immaginiamo un mondo senza umanità e senza architettura, la realizzazione di un Novacene estremo, in cui persistono solo errori progettuali e quasi nessun esito positivo (per l’umano). Per un attimo decidiamo di affidarci alla narrativa, la stessa usata da molte firme globali contemporanee per raccontarci il futuro che hanno in mente per noi. In fondo anche il Novacene è ancora un esperimento narrativo, l’insieme dei tentativi di immaginare collettivamente un futuro. Prendiamo quindi in considerazione due opere letterarie che tentano di descriverlo e che sono legate da un unico e tragico filo rosso: la scomparsa dell’umano. La prima opera è un pamphlet, intitolato appunto Novacene – The Coming Age of Hyperintelligence, in cui la secca prosa del centenario ingegnere James Lovelock[xii] descrive il Novacene come un’epoca futura in cui l’umano e il naturale non esistono più, superati evolutivamente da un collettivo [natura+cyborg] guidato da Intelligenze Artificiali. Secondo lo stesso creatore dell’ipotesi di Gaia[xiii], il futuro non appartiene all’umano. Ad esso spetta, come ultimo atto evolutivo, la creazione proprio delle IA, capaci di superare l’intelletto umano nella comprensione del cosmo.
Umanità e architettura trovano invece ancora un’ultima alleanza nel racconto The Shores of Bohemia[xiv], scritto nel 1991 da Bruce Sterling, texano, futurologo e scrittore di fantascienza cyberpunk. Il racconto descrive la vita di Paysage, la Città della Giovinezza, un piccolo borgo di un apparente stile vittoriano. L’attività principale a Paysage è la costruzione di una gigantesca opera di architettura denominata l’Enantiodromo, ricca di stili e orpelli costruttivi, incommensurabile, “quel grande monumento di pietra, quella Cattedrale alla Gioventù, quell’edificio altissimo e magnificamente inutile che rappresentava il cuore di Paysage”. Nel racconto di Sterling la Natura che circonda Paysage è stata invasa dalle nanotecnologie, fondendosi così in un iperoggetto letterario (una versione high-tech dell’ipotesi di Gaia di Lovelock, molto simile al dominio dei cyborg immaginato per il Novacene). Questo sistema di sistemi, nel futuro immaginato da Sterling, organizza l’intero pianeta Terra al di fuori della comprensione umana. Il racconto di Sterling lascia ancora un posto per l’umano, all’interno di un collettivo [natura+cyborg] che domina il pianeta, ma non sembra esserci spazio per l’architettura o per una città. Anzi, l’architettura è divenuta un atto puramente memoriale e quasi del tutto privo di progetto.
Dovremmo tener conto di queste narrazioni, così poco disciplinate, per cercare di dar conto del futuro della disciplina dell’architettura? Forse sì, almeno nella misura in cui ci spingono a mettere in discussione le ragioni dell’esistenza dell’architettura e dell’umano. Queste fratture diventano molto preziose, aprono spazi di distanza critica, permettendoci di sospendere e rivedere anche le teorie più consolidate. Le stesse ipotesi di continuità/ripetibilità tra la città già costruita e quella da costruire, basate sulle serie tipologiche o su altri tipi di invarianti, dovrebbero essere riviste per aiutare la disciplina dell’architettura ad essere davvero più realista. Ridurre la complessità e le idiosincrasie della città e dell’architettura attraverso classificazioni invariabili (tipologiche, morfologiche, funzionali, storiche, estetiche), in modo controintuitivo e inaspettato ha frammentato ogni continuità possibile, confinando l’esperienza del costruito solamente a quanto poteva essere annotato e classificato all’interno di tassonomie. E’ così che la continuità è divenuta separazione, e che la realtà ha smesso, sul lungo periodo, di essere elemento attivo di progetto.
Per ritrovare la realtà l’architettura dovrà sviluppare la propria capacità di esplorare il possibile, di tener conto degli esiti di un pensiero associativo, molto probabilmente sviluppato all’interno di comunità estese e trasversali che mescolano professionisti, ricercatori e cittadini attivi. Come affermava Bergson, questa esplorazione è così complessa che non potrà che essere collettiva. L’elaborazione di questa capacità esplorativa da parte dell’architettura implica l’uscita dall’autoreferenzialità che la disciplina si è costruita in secoli di prassi locali e globali. Dunque, se l’intento è quello di progettare il futuro, l’autoaffermazione dell’opera di architettura, il suo essere a priori un pezzo del mondo, indipendentemente dalle connessioni (o dalle fratture) che vengono messe in atto con lo spazio e con il tempo, non è più condizione necessaria e sufficiente per dare una ragione d’essere all’opera.
Sarà forse possibile sviluppare anche per l’architettura un processo interno di falsificazione delle teorie. Questa traiettoria di decostruzione e apprendimento sarà auspicabilmente accompagnata da metodi derivanti dall’antropologia e dall’ontologia comparate, per portare l’architettura a rivedere le proprie classificazioni, poiché purtroppo piegano e disciplinano il pensiero, escludendo il non disciplinato e le sue istanze, fino a quando esse non sono già emerse come forze autonome che mettono in crisi la disciplina stessa.
Nel momento in cui togliamo all’architettura i suoi puntelli di stabilità, per proiettarla in direzione degli scenari accumulati dal Novacene, prendiamo nota di almeno due possibili conseguenze. Da un lato, di fronte ad un mondo in accelerazione e ad un forte indebolimento dei suoi universali e delle sue strutture disciplinari, l’architettura potrebbe finalmente cercare di unificare progetto e composizione, trasformando il primo in un processo di apprendimento e la seconda in una modalità di esplorazione. In questo modo smetteremmo di considerare “ogni progetto di architettura come opportunità per un’opera di creazione individuale”[xv], e cercheremmo piuttosto di affidargli un compito molto più gravoso: divenire parte delle future garanzie di sopravvivenza collettiva. La seconda conseguenza, l’abbiamo già anticipata, è che l’architettura potrebbe accettare la falsificabilità delle proprie teorie e il sovvertimento dei propri postulati, accogliendo il metodo scientifico. Si tratterà anche di tener conto dell’esistenza di alcuni bias[xvi] che prima non prendevamo in considerazione, di quelle differenze tra la realtà e il nostro modo di interpretarla e modellarla in un algoritmo funzionale e formale. I bias non sono teorici: divengono componenti strutturali e ontologici nel momento in cui affidiamo all’architettura la nostra stessa possibilità di esistere. Vigilare sui bias della disciplina dell’architettura è condizione necessaria per permetterle di evolvere come disciplina realmente collettiva.
In questo percorso che stiamo cercando faticosamente di delineare attraverso un possibile cambio di paradigma per l’architettura, l’ultimo ostacolo che ci si pone di fronte è in realtà una montagna quasi insuperabile: dovremmo abbandonare la centralità della costruzione. La disciplina dell’architettura pone la costruzione come fine e sintesi della propria prassi, al centro della propria finalità e ragione principale della propria stessa esistenza. Questo rende l’architettura segnatamente teleologica: il progetto è il suo metodo di organizzazione interna delle informazioni provenienti dal proprio contesto storico, culturale e tecnologico e la costruzione è l’affermazione positiva di questa sintesi. Il senso comune ci porta così a pensare che le opere di architettura più significative possano dirci molto dei modi in cui uno zeitgeist ha formulato la propria visione del mondo: esse sono state considerate tra gli oggetti più interessanti prodotti dall’uomo, dalla storia, dall’estetica, e in epoca più recente, dalla filosofia. Di rappresentazione in rappresentazione, l’opera di architettura è stata letta come il condensato più ricco di spunti eterogenei, a partire dagli aspetti sociali, passando per quelli produttivi, traversando quelli tecnologici, giungendo a quelli concettuali e traguardando, oggi, anche aspetti etici. Per queste ragioni la disciplina dell’architettura ha fatto della costruzione il suo principio costitutivo e simbolico. Attorno alla costruzione gravitano la storia, la tecnologia, l’estetica e il progetto d’architettura, al punto che essa è stata al contempo principio e fine della disciplina. Ma la costruzione ha anche alimentato l’autoreferenzialità dell’architettura, e pur apparendo al senso comune come un fatto positivo e costitutivo della realtà, di fatto sottrae l’opera da ogni giudizio, rendendola direttamente parte della realtà, senza alcuna possibilità di appello. Quale processo straordinario!
Siamo a conoscenza quindi del fatto che se mettiamo in dubbio la centralità della costruzione, operiamo nel cuore dell’ontologia dell’architettura. Tuttavia si tratta, secondo noi, di un transito necessario per permetterebbe all’architettura di superare gran parte di quella autoreferenzialità che la centralità della costruzione generalmente permette, quando annoda insieme interpretazioni, teorie, immaginari e realtà costruita senza possibilità di appello. Rinunciare alla centralità della costruzione significa, in altre parole, avere l’opportunità di valutare, di caso in caso, il diritto di esistenza di ogni manufatto architettonico. Potremmo così far emergere l’errore, il bias, e aprire l’architettura all’apprendimento, senza più considerare il costruito come un fatto incontrovertibile.
Mettendo da parte la costruzione daremo all’architettura la possibilità di prendere in considerazione una nuova lettura del reale come composizione complessa di parti in stato di relazione continua[xvii]. Se la costruzione opera per nascondimenti, sottrazioni, macchinazioni che tendono a spezzare le connessioni tra il manufatto e il reale, dovremo allora capire, una volta contestualizzata, localizzata e spostata la costruzione dalla posizione di centralità che ha occupato per secoli, se è possibile immaginare un’alternativa ad essa o quantomeno una sua nuova versione, passando dalla costruzione al costrutto. Intendiamo qui il costrutto come una struttura temporanea e limitatamente funzionale, non necessariamente quantificabile, ma sufficientemente stabile e aperta da garantire connettività e resilienza a livello locale. In altri termini il costrutto è un concetto adattabile, ottimo per una disciplina capace di esplorare e agire in un contesto indeterminato.
Il costrutto appartiene alla medesima linea genetica dell’objectile elaborato da Gilles Deleuze e Bertrand Cache, straordinario filosofo transitato prima per il coding e approdato infine al design. Per Cache il digitale, che permea sempre più i processi di design e produzione, è un fenomeno abilitante non soltanto di nuove forme ma anche di nuovi stati di relazione tra le ipotesi iniziali e i loro risultati formali. Cache descrive l’objectile come “l’insieme di oggetti che sono variazioni ripetibili su un medesimo tema, come una famiglia di curve che seguono lo stesso modello matematico; oggetti immersi in un flusso”[xviii]. Analogamente potremo concepire il costrutto come un quasi-manufatto, in cui non esiste una reale soluzione di continuità tra materiali e mesh digitali: i materiali lo costituiscono tanto quanto le informazioni incluse nel suo algoritmo, e che derivano da contesti alle scale più diverse: ad esempio le reazioni biochimiche agli agenti inquinanti dell’atmosfera locale o l’influenza sugli ecosistemi planetari dei suoi deficit di efficienza energetica. Il costrutto sarebbe tanto uno strumento di progettazione sperimentale olistica che un potente grimaldello filosofico, poiché metterebbe costantemente a dura prova le catene produttive e i sistemi di costruzione di senso, permettendo di trasformare definitivamente l’architettura in una filosofia esplorativa della costruzione.
Molte caratteristiche che abbiamo descritto per il costrutto sono già in fase d’opera, grazie all’introduzione di strumenti per la creazione di forme basati su algoritmi informatici. Se l’algoritmo è ben codificato, esso sarà già un costrutto, un quasi-manufatto, poiché avrà già stabilito adeguate connessioni tra le ipotesi iniziali (ad esempio la presenza di agenti quali il soleggiamento, la direzione e la forza dei venti dominanti, la quantità di materiale utilizzata, la sua impronta ecologica, l’utilizzo delle fonti di energia, la fruibilità degli spazi interni ed esterni, ecc…) e la forma da essi risultante. L’algoritmo per il form finding costituirà così delle connessioni non-lineari tra tutti gli agenti che determinano la forma, ed essi potranno modificare la forma fino al risultato finale. Sarà possibile così per la composizione di divenire modalità di esplorazione attraverso processi/progetti esplorativi che possono durare per l’intera esistenza del costrutto. Ma la parte digitale del quasi-manufatto dovrà mantenere le caratteristiche di instabilità e di apertura al possibile tipiche di ogni costrutto, altrimenti l’architettura ricadrebbe nell’autoreferenzialità. Il costrutto dovrà quindi accogliere anche le istanze materiali che insistono per avere voce nel progetto. Tra queste includiamo tutti i bias che provengono da un ritrovato realismo e che non possono essere inclusi nella componente digitale del costrutto: le preoccupazioni degli utenti, le richieste delle comunità che dovranno convivere con il manufatto una volta realizzato, la necessità di sperimentare nuovi livelli di interazione tra i diversi agenti che abiteranno il manufatto, la sua estetica finale, la sua capacità di adattarsi ad altri usi, e così via.
Così come il costrutto diviene molto più permeabile attraverso l’evoluzione dei processi di produzione lineare in processi di generazione complessa, così anche per la composizione si aprono traiettorie evolutive molto interessanti. La composizione, per divenire la principale modalità di esplorazione, dovrà necessariamente ribaltare il proprio punto di vista sul rapporto tra Parti e Tutto: poiché le Parti hanno guadagnato capacità di azione sul mondo, la loro somma sarà più importante e interessante del Tutto. Avremo così nell’architettura esplorativa uno strumento potente, capace di accogliere nuove istanze provenienti da un mondo che cambierà sempre più rapidamente.
NOTE:
[i] In Voegelin, E. (1952), The New Science of Politics, Chicago, USA: The University of Chicago Press. Traduzione dall’inglese di E. Lain.
[ii] Nel 2012 Stan Finney, capo della Commissione Internazionale di Stratigrafia e paleontologo alla California State University di Long Beach, affermò che l’Antropocene è “un’affermazione politica”.
[iii] Secondo i dati dell’Istituto Godard per gli Studi Spaziali il 75% degli effetti del riscaldamento globale dureranno per cinquecento anni, mentre tra tremila anni gli oceani avranno assorbito il 75% dei composti di carbonio. Purtroppo ben il 7% degli effetti del nuovo regime climatico durerà per centomila anni. In Morton, T. (2013), Hyperobjects, ed. it. 2018, Roma, IT: NERO
[iv] Secondo Mark Fisher Il realismo capitalista ha contaminato ogni possibilità teleologica, spingendoci a ritenere che non ci sia alternativa allo sfruttamento biopolitico della società, né all’applicazione delle logiche di mercato ad ogni aspetto dello sviluppo umano.
[v] Monestiroli, A. (1979), L’Architettura della Realtà, Milano, IT: CittàStudi
[vi] Per avere un riscontro visivo di questa mia affermazione si possono vedere le fotografie di Johnny Miller al sito https://unequalscenes.com/projects?utm_medium=website&utm_source=archdaily.com
[vii] Foucault, M. (1975), Surveiller et punir, ed. it. 1976, Torino, IT: Einaudi, p. 212
[viii] Mi riferisco qui al neoliberismo. Nella prima parte del loro Inventing the future del 2015, Nick Srnicek (docente di digital economy) e Alex Williams (docente di sociologia), descrivono l’ascesa vincente del neoliberismo, il paradigma sociale, economico e politico che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha inanellato vittorie schiaccianti sul socialismo. Con l’emergere del neoliberismo come pensiero egemonico, si è giunti ad una ibridazione profonda tra bios e politica: non solo il futuro sembra già scritto (questione teleologica e politica) ma addirittura la realtà e la sua descrizione sono divenuti esclusivo appannaggio dell’egemonia neoliberista.
[ix] Senza entrare qui nell’ambito della filosofia e dell’ontologia, rimando al testo di Timothy Morton (2013), Iperoggetti, che per certi versi restituisce alla filosofia la sua capacità di esplorazione del reale, e che può essere affiancato alle ricerche di Bruno Latour nell’ambito di una antropologia dell’Occidente. Entrambi colgono la necessità di ripensare l’Occidente e il suo rapporto con la dimensione globale. Morton e Latour prendono però direzioni diverse. Il primo sostiene che l’umano è ormai oggetto tra oggetti non più completamente percepibili, essendo essi viscosi, non locali e interoggettivi. Tre esempi di iperoggetti: il sottile strato di polvere di carbonio che ha ammantato la Terra dall’inizio dell’Antropocene (nel 1784, con il brevetto della macchina a vapore di Watt); la radiazione nucleare diffusa dovuta all’uso di armi nucleari dal 1945; il riscaldamento globale. Latour sostiene invece la possibilità e l’obbligo etico, per l’umano occidentale, di divenire diplomatico attivo nella ricomposizione di un nuovo cosmo, in grado di includere soggetti umani e non-umani attraverso il superamento delle divisioni tra nature e culture.
[x] Mi riferisco qui alla teoria degli agenti coscienti espressa da Donald Hoffman nel libro L’Illusione Della Realtà – come l’evoluzione ci inganna sul mondo che vediamo. “Il realismo cosciente fa un’affermazione ardita: è la coscienza, non lo spaziotempo con i suoi oggetti, a costituire la realtà fondamentale, e il modo più adeguato per descriverla è una rete di agenti coscienti” in Hoffman, D. (2020), The Case Against Reality. How Evolution Hid the Truth from Our Eyes, ed. it. Torino, IT: Bollati Boringhieri (p. 283). La teoria di Hoffman è interessante in quanto matematicamente ineccepibile, anche se profondamente controintuitiva, in quanto descrive l’intera realtà tridimensionale del nostro percepito come fosse una interfaccia utente semplificata e dalla spiccata fitness nei confronti del nostro apparato percettivo-cognitivo. Gli agenti coscienti si avvicinano molto al concetto di immagine di Bergson, per il quale, appunto, la percezione ha carattere di oggettività (la percezione è la cosa).
[xi] Si vedano le ricerche della professoressa Elena Manferdini al Southern California Institute of Architecture, nonché il suo articolo inVISIBLE del 2020 (https://issuu.com/architettinotizie/docs/an02_2020_issuu).
[xii] Si veda Lovelock, J. (2020), Novacene – The Coming Age of Hyperintelligence, Cambridge, Massachusetts: The MIT Press
[xiii] L’ipotesi di Gaia nasce negli anni ’70, quando la Nasa chiese a Lovelock un metodo per cercare la vita in altri pianeti. Lovelock rispose che avrebbe cercato una riduzione dell’entropia sulla superficie dei pianeti, in quanto la vita organizza il proprio ambiente.
[xiv] Compare in Sterling, B. (1991), Globalhead, ed. it. Cronache del basso futuro, Milano, IT: Arnoldo Mondadori Editore
[xv] Si veda Cache, B. (2011), Projectiles, London, UK: Architectural Association Publications.
[xvi] Ogni volta che interpretiamo il mondo siamo potenziali vittime di bias, soprattutto nella costruzione delle simulazioni virtuali che possono aiutarci ad anticipare il futuro, come accade, ad esempio, per le conseguenze del nuovo regime climatico. In modo controintuitivo ci accorgiamo che la modellizzazione e virtualizzazione dei processi, per essere efficace, impone uno sguardo ancora più vigile e attento verso la realtà e, soprattutto, alla sua componente variabile, poiché è lì che si annidano i principali bias.
[xvii] L’associatività dei processi di produzione non-standard potrebbe influenzare il nostro modo di interpretare la realtà, spingendoci a vederla come un insieme di relazioni continue. Si veda a proposito quanto scrive Bertrand Cache (2011) nel suo saggio Towards a Non-Standard Mode of Production: “L’associatività è il principio adottato nei software che organizza il progetto di architettura in una lunga catena di relazioni, dalla prime idee concettuali fino alla guida delle macchine che prefabbricheranno i componenti da assemblare in sito.”
[xviii] In Cache, B. (2011) Objectile: The Pursuit of Philosophy by Other Means?