PROSSIMITA’ E COABITAZIONE – note da ASTIFest 2022

Lo scorso 21 maggio si è conclusa l’edizione 2022 dell’ASTIFest, festival dell’architettura ad Asti. Organizzare un festival sull’architettura mi è sempre sembrata un’attività immane, soprattutto oggi, in quanto le tematiche sono al contempo dimensionalmente troppo vaste, troppo complesse e sottoposte al costante rischio di risultare prive di interesse per il grande pubblico (e, in alcuni casi, anche per gli addetti ai lavori). Lo hanno capito perfettamente lo studio BIG e l’Heatherwick Studio, che realizzano architetture altamente iconiche per un pubblico sostanzialmente narcisista e dallo sguardo consumato da un capillare eccesso di visibilità mediatica.

In questo clima culturale, l’amico e collega Marco Pesce, instancabile direttore dell’ASTIFest, gode da parte mia di grande ammirazione, per la sua energia, per l’intelligenza e per la sua  straordinaria capacità di approfondire le questioni legate al proprio territorio. Quando Marco parla o scrive di Asti e del paesaggio che la circonda lo fa in modo specifico, puntuale, trascrivendone le dinamiche, i processi e gli attori. Per queste ragioni, quando mi invitò per rispondere alla domanda come rappresentare, progettare e governare un territorio della prossimità? , decisi di proporre una riflessione che definirei manutentiva, con la finalità di ripulire e lubrificare alcuni di quei processi e di quei concetti che diamo per assodati quando parliamo di rappresentare, di progettare, di territorio e di prossimità. L’ho riportata qui di seguito, attraverso alcune note.

Recentemente mi sono convinto che un pizzico di filosofia del design sia utile per evitare di affidare l’esito dei nostri progetti a certi automatismi che, ad un’analisi più approfondita, si rivelano non del tutto automatici o, peggio ancora, si dimostrano dei grossolani errori di valutazione. 

Il tema generale del festival era la prossimità, dunque ho iniziato a riflettere, da designer, su come possiamo progettarla. Innanzitutto andava chiarito cos’è la prossimità. Si tratta di un concetto che si integra operativamente con quello di rigenerazione, con il quale condivide almeno tre caratteristiche: la località, l’integrazione tra progetto e società, la generatività. La località è facile da comprendere, in quanto sia la prossimità che la rigenerazione riguardano specifiche porzioni di uno spazio abitato; inoltre sia la prossimità che la rigenerazione integrano nella propria progettualità un interesse profondo per la società; infine entrambe auspicano che ogni loro gesto attuativo possa generare un surplus di valore (sia per il mercato, sia per la società). La prossimità sembra essere dunque un concetto basilare, un puntello alla visione ben più complessa della rigenerazione. La prossimità interesserebbe una specifica vicinanza sociale e spaziale, secondo un sottointeso postulato per cui ad una maggiore densità abitativa corrisponderebbe una maggiore interazione sociale. Questa interazione diventerebbe poi una delle chiavi per la produzione di valore in ambito rigenerativo. Ma è davvero un concetto così semplice e automatico?

Nel 1978, in un libro riedito nel 2003 con il titolo “L’architettura di sopravvivenza – una filosofia della povertà”, Yona Friedman, quasi in risposta a “L’immagine della città” di Kevin Lynch del 1960, proponeva l’adozione dello strumento delle carte del meteo urbano per rappresentare le zone di prossimità, le zone in cui “si trovano (magari in un quartiere lontano, o in un gruppo professionale diverso) i nostri alleati contro un determinato progetto (…)”. Il meteo urbano non è una mappa che descrive la persistenza (come è l’immagine della città), ma rappresenta, al contrario, proprio la mutevolezza degli equilibri tra gli abitanti della città. Friedman continua così: “non spetta a noi definire la carta e le tavole delle zone di prossimità. Le informazioni che indicano lo ‘stato della città’ cambiano di continuo. (…) Le carte delle zone di prossimità sono le carte meteorologiche della nostra città.”

Friedman considerava la prossimità come il risultato dell’organizzazione invisibile e variabile tra le comunità urbane. E’ possibile usare la prossimità per pianificare una città? Certamente, ma a patto di modificare in primis strategie e finalità nella pianificazione. Le proposte di Friedman considerano infatti la sopravvivenza come finalità, e la prossimità come strumento di collaborazione tra abitanti che non sono qualificati in base a principi di proprietà. Il territorio della prossimità di Friedman, per dirla con Deleuze, è un territorio liscio, senza suddivisioni di proprietà e senza infrastrutture. In questo scenario, la pianificazione non viene utilizzata come forma di tutela di diritti acquisiti da cittadini, ma come strategia per garantire, nel minor tempo possibile, una risposta collettiva di resilienza da parte di abitanti. Ci sembra indispensabile tenerlo a mente, quando pensiamo alla prossimità, altrimenti la immagineremo solo come un layer aggiunto alla pianificazione urbana da pianificatori illuminati e colti, senza più quella carica performativa indispensabile a chi lotta per la sopravvivenza.

Leggendo Abitare la prossimità di E. Manzini ho avuto il sentore di questo infido meccanismo di trasposizione e depotenziamento, passando dal sud al nord del mondo. Mi è parso che quando si parli di prossimità sia facile scivolare in una semplificazione un po’ forzata di concetti più complessi (e non del tutto legati allo spazio fisico). Secondo Ron Boshma, citato da Manzini, la prossimità può essere descritta da cinque dimensioni: p. geografica, p. sociale, p. cognitiva, p. organizzativa e p. istituzionale. Le cinque dimensioni sono inevitabilmente spurie, e implicano non solo una ridotta distanza fisica, ma anche una buona dose di fiducia, un medesimo modo di vedere il mondo, un medesimo modo di organizzarlo e un medesimo indirizzo tra le finalità delle leggi e quelle espresse, in modo informale, dalle comunità locali. Armonizzare queste cinque dimensioni in modo che possano condurre ad una prossimità concreta e completa, nella quale lo spazio fisico possa essere espressione delle dinamiche sociali locali e della loro progettualità, è forse il santo Graal di ogni pianificatore. Basti pensare a quanto impegno viene profferto nei progetti di Urbanismo Tattico solo per transcodificare nei regolamenti municipali le finalità informali locali, permettendo così il transito dall’illegale al legale (e ripetibile), o a quanto è difficile costruire un paradigma comune nel vedere e interpretare il mondo per riuscire ad attuare così la prossimità cognitiva.

Sembra tuttavia che, a favore di narrazione politica e ideologica, la prossimità debba necessariamente essere un concetto semplice e facilmente comunicabile, anche a prescindere dall’intrinseca complessità delle scienze sociali a cui afferisce. Anche la prossimità subisce quel generale percorso della nostra mente, che tende a semplificare i concetti complessi per economia di pensiero. Si tratta di un meccanismo probabilmente utile per proteggerci da un sovraccarico di elaborazione, vista la quantità di stimoli che riceviamo quotidianamente. Ma al contempo, come ricorda Robert Cialdini, questi processi di semplificazione producono automatismi che innescano fenomeni di acquiescenza automatica, o portano a non riuscire a considerare un concetto nella sua interezza. Solitamente la semplificazione è un processo che tende a ridurre gli elementi in campo, trasferendo su di essi la complessità del sistema, attraverso un meccanismo di nidificazione che fa sembrare più facile il sistema stesso. Si creano così un numero limitato di black box, semplici e compatte, utili da disporre ordinatamente sulla scrivania, ciascuna con una propria etichetta: #società, #comunità, #flessibilità, #piattaforma, #innovazione, #tempo, #progresso, e così via. La perfezione iconica di queste scatole nere è tale che tutti le riconosciamo, ma in pochi sanno realmente cosa c’è dentro. Sfortunatamente un buon design non potrà sottrarsi all’obbligo di aprire, a fatica, queste luccicanti scatole nere. E non per una ragione etica, ma per una ragione prettamente estetica e funzionale: le attuali tecniche di rappresentazione basate sui new media combinano, seppur in modo disordinato e conflittuale, un punto di vista soggettivo ad un panoptismo pieno di punti ciechi, nei quali l’epistemologia e l’ontologia si compenetrano. La profusione di immagini e rappresentazioni, prive di una struttura a priori, impongono, non solo ai ricercatori ma anche ai designer, uno sguardo sempre più immersivo ed esplorativo. Non sembra possibile più alcuna astrazione dalla complessità in nome di una struttura semplice a cui poter affidare il compito di descrivere compiutamente il reale. In poche parole l’apertura delle black box diviene una priorità anche per noi designer, che, come esploratori della complessità, avremo anche il compito di tracciarne mappe e rappresentazioni condivisibili.

E’ così che, usando un pizzico di logica come un grimaldello per aprire la scatola nera della prossimità, ci accorgiamo che questo concetto nasconde una splendida tautologia. Lasciate che traduca le premesse e le finalità della prossimità (come descritte da Manzini) con un semplice sillogismo:

  1. la prossimità è la condizione favorevole alla formazione di aggregati sociali (gruppi, comunità, rioni, quartieri…)
  2. gli aggregati sociali alimentano la solidità della società civile e civica
  3. la società garantisce che la prossimità abbia effetti anche al di là della semplice vicinanza spaziale

Il nostro sillogismo evidenzia il fatto che il “sociale”, per la prossimità, costituisce, al contempo, la premessa ontologica e la finalità teleologica. In altri termini il “sociale” fonda la prossimità e al contempo è il suo principale risultato. Mettere in discussione il “sociale” come fosse l’esito di un nugolo di azioni e interazioni in background è quasi una scelta di campo (tra una sociologia del sociale e una sociologia delle associazioni, direbbe Latour). Una cosa simile certe volte accade anche per la gli studi sulla sostenibilità, quando si aggrappano alla solidità di un concetto universale di Natura, senza considerarla il risultato dell’interazione tra innumerevoli agenti inclusi nel biofilm che avvolge il nostro pianeta.

Non essendo un sociologo, ho preferito sostenere, più semplicemente!, che aprire le scatole nere è un buon modo per accorgersi di tutta la meravigliosa complessità del design, del suo essere costantemente in fase di revisione, del suo essere, spesso e involontariamente, l’unico antidoto alla semplificazione. Mi si obbietterà che il design produce spesso forme semplici, iconiche, universali, e che questo non si allinea bene con quanto ho appena affermato. Ma se tenete conto del tempo vi accorgerete che abbiamo dimenticato il caro Focillon e che le forme prodotte dal design hanno sempre una loro implicita imprecisione. Ci siamo adagiati alla rotonda poeticità di Heidegger, quando descrive la cosa come ciò che fa “permanere la Quadratura”, ma dovremo necessariamente rimettere il naso fuori dalle case che abbiamo costruito e in cui abitiamo e pensiamo, per riflettere, progettualmente, al mondo in cui dovremo, invece, coabitare.

Le forme che produciamo rimangono i nostri più amichevoli alleati per la comprensione del mondo. Focillion, nel suo La Vita delle Forme del 1943, scriveva per l’appunto che: “le forme plastiche presentano delle particolarità non meno notevoli. S’ha ragione di pensare ch’esse costituiscono un ordine e che un ordine siffatto è animato dal movimento della vita. Sono soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente, ed al principio degli stili, che, con una progressione ineguale, tende successivamente a saggiare, a fissare e a disciogliere i loro rapporti”. Le relazioni formali, per Focillon, erano state troppo a lungo ignorate a favore dei loro significati, e meritavano di essere prese in considerazione. Molti decenni dopo, nel 1999, un altro francese, Bernard Cache, allievo di Deleuze, scriveva che “la cosa più importante resa possibile grazie al digitale non è il design di splendide linee curve, ma piuttosto la costruzione di quella lunga catena di relazioni tra le ipotesi iniziali di un progetto e i suoi risultati formali”.

Abbiamo iniziato con la prossimità e siamo finiti nel design. Abbiamo chiarito che siamo a caccia di automatismi che non lo sono, di scatole nere che semplificano eccessivamente la complessità, e di tutti quei filamenti appiccicosi che trasformano immediatamente una struttura gerarchicamente organizzata in un network informale e denso di significati. Per queste ragioni Latour sostiene che oggi il design è il degno sostituto della rivoluzione, nel quale siamo destinati a rivedere costantemente gli stessi progetti in un continuo ri-progettare in corrispondenza alle durate e alle transcodifiche tra umani, non-umani e tecnologie. Progettiamo continuamente case, strade, centri civici, parchi, senza mai arrivare alla fine del nostro percorso di revisione, che Latour chiama “rimediazione”, probabilmente riferendosi alla ricerca sul medium contenuta in Remediation di J. D. Bolter e R. Grusin del 1999. I due autori ipotizzano che esista una reciprocità tra i media, e che operi tramite una rimodellazione continua. Così intesa, la rimediazione sarebbe diversa dalla cura in quanto si tratta di un’azione coinvolgente e bilaterale, nella quale il soggetto-designer e l’oggetto-disegnato si rimodellano continuamente e reciprocamente.

A questo punto era inevitabile che ci chiedessimo: di quali oggetti stiamo parlando? Se il design deve avere anche una componente ontologica, è bene che chiariamo fin d’ora cosa abbiamo davanti a noi, o, se preferite, con quali oggetti siamo in una condizione di prossimità, e dunque, anche per gli oggetti, dovremo spendere una buona dose di fiducia, costruire insieme un medesimo modo di vedere il mondo, trovare un medesimo modo di organizzarlo e determinare un medesimo indirizzo tra le finalità delle leggi e quelle espresse, in modo informale, in sede locale. Ma prima di tutto, visto che parliamo di non-umani, dobbiamo chiederci: che categorizzazione adottare? Funzionale (a che serve questo oggetto)? Dimensionale (quanto grande è)? Sostanziale (di cosa è fatto)? Abbiamo preferito invece usare due insiemi molto più ampi e porosi, che risultassero il meno antropizzati possibile. Innanzitutto dobbiamo riconoscere che di fronte a noi designer stanno degli ibridi fisico-digitali, con una presenza simultanea on-line e off-line, e tra i quali non ha più molto senso operare distinzioni moderniste, come quelle che abbiamo più sopra elencato. La nostra prima serie di costrutti si occupa delle connessioni: sono le reti, fondamentali per dare presenza alle relazioni.

La seconda serie descrive invece quei costrutti che occupano i nodi delle reti: sono le cose, gli oggetti e i fantasmi

Ovviamente non si tratta di categorie, ma solo di insiemi abbastanza grandi da permettere agli eventi, siano essi fisici, digitali, tangibili, immaginari, corporei, mentali, possibili, di ricadere in uno di essi. Ci interessava marcare il fatto che il design può occuparsi di ogni tipo di composizione, anche tra elementi spuri.

COSA SONO LE COSE? Per Heidegger la cosa è “ciò che concerne l’uomo”. I latini intendevano questo con res, al punto che res publica significa letteralmente preoccupazione di pubblico interesse. Latour aggiunge il significato di “assemblaggio”, per cui potremmo definire la COSA come un complesso assemblaggio di questioni complesse e in alcuni casi contraddittorie, e delle quali si occupa l’uomo.

COSA SONO GLI OGGETTI? Se le cose hanno ancora un legame con noi umani, gli oggetti tendono a sfuggire sempre più dal nostro dominio, soprattutto se decidiamo di intrecciare insieme le caratteristiche degli oggetti utilizzati nella programmazione per oggetti (componibili e nidificati) e la definizione che Harman dà all’oggetto, descrivendolo come “qualsiasi cosa che non può essere totalmente ridotta né ai componenti di cui è fatta, né agli effetti che ha sulle altre cose”. Ci ritroviamo così per le mani un’idea di OGGETTO altamente mutevole. Nella OOO gli oggetti hanno una propria vita, una propria durata, e un’identità indipendente dagli elementi che li compongono: potrebbero essere un oggetto un quartiere, un’associazione culturale che opera una ricerca-azione in una parte degradata della città, ma anche un olobionte urbano formato da umani+insetti+piante.

COSA SONO I FANTASMI? Possiamo dire che i fantasmi sono sostanzialmente quanto non trova posto tra le cose e gli oggetti. Questo non accade per ragioni ontologiche (dunque non perché i fantasmi non sono cose e non sono oggetti) ma generalmente per lacune di rappresentazione, per opacità dei media, o per effetto di una compressione selettiva. Ma i fantasmi sono qualcosa di più di una rappresentazione mancata, essi costituiscono probabilmente l’ultimo flebile legame tra la nostra capacità di percepire il tempo come durata e la possibilità di immaginare il futuro. Già Barthes ci aveva avvertito con il suo La camera chiara, come il senso della foto stesse nel mostrare ciò che già è stato, e che essa fosse così destinata ad essere sempre svuotata da ogni durata vitale. E anche Deleuze con il suo Immagine-Tempo ci ricorda che “l’immagine-tempo diretta è il fantasma che ha sempre ossessionato il cinema”. Molti anni più tardi Wunenburger riporta che “non c’è esercizio né esistenza del pensiero se il pensiero non si rapporta a un phantasma, cioè ad un’immagine dischiusa alla vista dell’immaginazione (phantasia) e formata dal nous”. Se i fantasmi sono una componente essenziale per le nostre procedure progettuali, determinante nella nostra ricerca del presente e del futuro attraverso la rappresentazione, allora la loro categoria dovrebbe includere anche il “lato oscuro” di ogni codifica per immagini, quello che sfugge alla codifica. Per questo vorrei proporre di estendere il concetto di fantasma anche (e soprattutto) a tutte le improvvise emanazioni o agli eventi imprevisti determinati da cause o attori non considerati. Il recinto dei fantasmi è certamente quello più complicato, con un lungo registro di ingressi temporanei, via via cancellati mano a mano che i fantasmi diventano cose o oggetti.

Per questo le transcodifiche tra cose, oggetti, fantasmi e soggetti divengono determinanti. Se le cose sono assemblaggi temporanei, gli oggetti opachi e i fantasmi evanescenti, solo le loro relazioni reciproche e le tracce che lasciano nello spazio-tempo determinano quella sottile pellicola di continuità che definiamo reale. Queste relazioni avvengono secondo una prospettiva tecnosociale, per la quale non esiste un “fondo sociale” a sostegno delle reti di correlazione, ma un fluire continuo di scambi che genera la dimensione sociale.

Dovrebbe essere oramai abbastanza chiaro che se iniziamo a guardare al mondo in questo modo, troveremo che una certa idea di composizione basata sull’identità (formale, funzionale o estetica) non sia più in grado di produrre dei risultati efficienti, in quanto non sarà in grado di considerare l’invisibile, incluso il continuo transito tra cose, oggetti e fantasmi. Senza una nuova composizione non potremo evitare di realizzare assemblaggi che non dicono abbastanza sul presente (poiché preferiscono limitare le rappresentazioni a quanto è già conosciuto e visibile) e non propongono nulla per il futuro (poiché, per espellere l’indeterminato, preferiscono mostrare oggetti senza durata).

Padiglione del Giappone ai Giardini della Biennale, 2021 (foto E. Lain)

In un recente articolo scritto da Lorenzo Damiani per Domus si suggerisce di riscoprire la durata degli oggetti, e di ampliare la nostra attenzione di consumatori incentrata sul solo presente. Ad un certo punto Damiani chiede “perché costruiamo apparecchi che è difficile disassemblare”? Questo mi ricorda la chiusura del mio intervento all’ASTIFest, quando volevo suggerire un esempio di come potesse cambiare il paradigma compositivo una volta modificata l’idea di design in funzione della sostenibilità. La mia proposta era la seguente: una volta considerati gli edifici come assemblati, e non come forme compiute, potremmo iniziare a progettarli sia per la fase della costruzione che per quella della successiva decostruzione. Gli elementi dell’assemblato (come la cryptomateria japonica, presentata al Padiglione del Giappone alla 17.ma Biennale di Architettura di Venezia) dovrebbero provenire da magazzini organizzati secondo un database locale, su base territoriale sufficientemente ampia. L’opera dovrebbe poi garantire la durabilità degli elementi assemblati e successivamente prevedere un piano di decostruzione, i cui costi dovrebbero essere coperti nei costi di assemblaggio iniziale, in modo da non gravare sull’utente successivo.

La mia proposta era chiaramente provocatoria, in quanto andava a problematizzare proprio il sancta sanctorum del modo occidentale di costruire e interpretare l’architettura. Per noi la composizione e la costruzione sono atti fondativi del reale, per questo proporre una retroazione basata sulla scomposizione e sulla decostruzione è così controintuitivo. Lo descriveva accuratamente Roland Barthes, descrivendo l’aria di un volto nel suo La Camera Chiara: “l’aria di un volto non è scomponibile (non appena io posso scomporre, io dimostro o ricuso, in breve io dubito, devio dalla Fotografia, la quale è per sua natura tutta evidenza: l’evidenza, è ciò che non vuol essere scomposto).” I nostri edifici godono dello stesso statuto di univocità del volto nei ritratti fotografici, e tra il carattere di un edificio e l’aria di un volto sembra sussistere un forte parallelismo. Eppure, come ho già avuto modo di sottolineare, questa impostazione, per quanto ci abbia rassicurato, ci ha impedito di vedere gli esiti della nostra azione progettuale, perché, come per la Fotografia descritta da Barthes, questa certa idea di opera d’architettura, in cui la costruzione e l’evidenza si supportano reciprocamente, non può che mostrarci altro che ciò che è stato, mentre finge di indicarci ciò che sarà.

Per queste ragioni la progettazione di questo ciclo di costruzione/decostruzione ci porterebbe a mettere in discussione la centralità della forma dell’opera, con notevoli ricadute pratiche e concettuali, spingendoci a nuovi cicli produttivi e compositivi. E, forse, anche ad elaborare nuovi paradigmi poetici.

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